Delos 21: Racconto racconto di

Lanfranco Fabriani

LA BELLA

E LA BESTIA

Con questo racconto approda su Delos uno degli autori più interessanti della fantascienza italiana degli Anni Ottanta. Dopo l'esordio sulla mitica fanzine padovana "The Time Machine" Fabriani, system administrator della rete informatica alla Facoltà di Lettere dell'Università La Sapienza di Roma, ha scritto poco, ma tenendo sempre uno standard qualitativo molto alto. Questo racconto è uscito in origine nel 1988 sulla fanzine vercellese "The Dark Side".

Gli uomini si tesero collettivamente per l'ultimo sforzo e diedero la strappata. Sotto la trazione dell'argano il vagone della metropolitana scivolò sulle rotaie fuori della galleria.

Tirai un sospiro di sollievo per la fine di un mese di estenuante lavoro. Il vagone aveva percorso duecento metri, e le funi non si erano rotte neanche una volta, e nessuno era stato investito dalla massa d'acciaio. Quasi un record.

Saltai giù dal marciapiede e girai intorno al vagone, passando una mano sulla mole di acciaio arruginita dove rimanevano solo alcune chiazze di colore indefinito di quella che una volta era vernice bianca e blu

-- Gli argani possiamo smontarli dopo pranzo, però domattina dovremmo poter iniziare a smontare i vetri -- dissi a Mario, il mio vice, che mi aveva raggiunto zoppicando sul suo piede deforme ed appoggiandosi al vagone.

Con un piede di porco aprii una porta, bloccata dalla ruggine, della cabina di guida e mi issai fino ad essa. Mario mi passò la torcia e mentre la introducevo nella cabina per un attimo ne sentii sul viso il calore ardente. Lì dentro non c'era quasi niente di interessante, solo materiale elettrico totalmente inservibile ma di cui in ogni caso non avremmo saputo cosa fare, senza elettricità né accumulatori.

Aiutai Mario a salire, poi dopo molti sforzi riuscii ad aprire la porta che dava nel settore passeggeri. Qui, sotto la spessa polvere e la coltre di ragnatele c'era qualcosa di più interessante, vetri per finestre, linoleum per pavimenti ed isolanti per il freddo, ma soprattutto lastre di metallo per tutto ciò a cui può servire il metallo per la ricostruzione di una civiltà.

-- Ce ne vorrà per scopare via tutti questi scheletri, sono più del solito.-- disse mario. -- Non ricordo d'aver mai visto un vagone tanto pieno.

-- Non scoparli, -- lo corressi, -- ma asportarli, uno per uno, ognuno in una cassa a sé, ed in un'altra cassa gli oggetti di cui non si è stabilita la proprietà, segnando sulla piantina il punto in cui sono stati trovati. E tutto va al museo, dove sarà sistemato, catalogato e studiato. E non ti far più sentire a dire scopare, oppure un giorno o l'altro lo dirai davanti alle persone sbagliate e saranno guai.

-- Ma con tutto il tempo che ci fanno perdere con queste idiozie... A sentire loro dovremmo raccogliere ogni pezzetto di stoffa marcia.

-- Dobbiamo, non dovremmo, e ringrazia che lo lascino fare a noi e non mandino un uomo della Soprintendenza Archeologica che ci metterebbe sei mesi solo per vuotare un vagone.

-- Tutte queste perdite di tempo per quattro straccetti senza valore. Chi lo sà cosa ci importa di sapere qual'era il modello dei calzoni dell'epoca e quale quello dei cappelli per uomo! Ed intanto rimaniamo fermi a giocare con le ossa quando c'è un vagone da smontare.

-- Non fa niente, proprio niente, e cercate di essere meno arruffoni del solito, o mi farete litigare con il museo un'altra volta. Adesso raduna gli uomini e vediamo di pulire il vagone da questa roba, vorrei cominciare a smontare domani, prima di dovermi mettere in malattia.

-- Ancora non ti fidi a lasciarmi lavorare da solo? -- Ghignò.

Stavo per spiegargli che non si trattava di non fidarsi, ma del fatto che dopo tutti quegli anni nelle squadre recupero ancora volevo essere presente all'atto della distruzione di un pezzo di civiltà, di un segno del passato, perché era importante per me, quando venni interrotto da alcune grida all'esterno. Ridussi in polvere alcuni scheletri per abbassare il finestrino coperto di polvere e ragnatele dalla parte del marciapiede.

-- Cosa sta succedendo lì fuori?

Quasi tutti non mi diedero retta, continuando ad urlare verso l'inizio della galleria, ma uno degli uomini si girò verso di me.

-- Due Figli del Rifugio, una donna ed un ragazzo, sono scappati nella galleria, li stanno inseguendo!

Mario si affacciò sull'altro lato e lo raggiunsi.

-- Eccoli laggiù quei bastardi, stanno sparendo nell'ombra.-- Alzò la voce, urlando verso gli inseguitori con le torce. -Volete muovervi?

Rimise la testa dentro. -- Spariti, è incredibile, con tutti quelli che abbiamo ammazzato in quaranta anni ancora ce ne sono.

-- Ho sentito dire che in qualche paese molto più a nord sono accettati e non solo li lasciano vivere, ma hanno persino gli stessi diritti degli altri. -- Dissi amaro.

In risposta sputò in terra, condividendo la mia opinione.

Si girò verso di me e stava per parlare ma si interruppe. -Ti sono cominciate le emorragie, stai perdendo sangue dal naso.

Imprecai. Mi frugai nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto, poi mi toccai il naso.

-- No, ancora non è una vera e propria emorragia, è solo una venuzza che si è spezzata.

-- Speriamo di poterli prendere, tra un mese sarà la festa della Morte e ci farebbe comodo un Bello da chiudere nel Rifugio delle Esecuzioni.

-- Vado a scrivere il rapporto sull'accaduto e poi penso che andrò a casa a mettermi a letto prima che inizi a perdere sangue sul serio, prendi il mio posto. Ci vediamo martedì.

I primi due giorni li passai costretto a letto con la febbre, sudando e smaniando, alzandomi solo ogni tanto per cambiare l'asciugamano.

Nei momenti in cui non era al lavoro alla fornace Carla mi curò sollecita, paziente, mentre io passavo da un'emorragia all'altra, con quel mio strano sangue che ogni mese per due giorni le mie cellule producevano in quantità indescrivibili, ma che non poteva essere trasfuso a nessun altro essere umano. La mia personale caratteristica che mi rende unico e diverso da ogni altro.

Il terzo giorno mi alzai, e tanto per fare qualcosa iniziai a riordinare e ripulire un po' la casa.

L'appartamento di due stanze e cucinino era al secondo piano di un palazzo che una volta doveva aver avuto otto piani ma che oggi ne conservava solo due. Ma proprio nella metà in cui non era rimasto neanche il piano terra, oltre un cortiletto pieno di macerie e di travi di cemento armato spezzate, un resto di angolo con due brevi muri ed una finestra su ogni lato si ergeva fino all'ottavo piano, come un gigantesco dito alzato a ricordarci che una volta le cose erano diverse.

L'appartamentino era una piccola cosa, ma le pareti sembravano solide e questo ci rassicurava non poco, anche se a volte ci sembrava sentir vibrare il pavimento sotto i piedi.

Nel tentativo di bloccare con dei sassolini le mattonelle più sconnesse dovetti spostare il nostro letto, e per far questo dovetti togliere la rete rugginosa incastrata tra le sponde di legno robusto. Nuove una volta tanto, l'orgoglio di mio fratello che l'aveva fabbricato personalmente e ce lo aveva regalato per il nostro matrimonio. Due anni prima che si facesse quel taglietto alla mano e morisse d'infezione.

Il sacchetto era sotto la rete. Incuriosito lo aprii.

Fu un colpo. Incredulo tirai fuori il suo contenuto e lo portai alla luce. Gemetti e colpii il muro con un pugno, scrostandolo e facendomi male. Dovetti sedermi sul letto perché le gambe non volevano reggermi, stordite anch'esse dalla mazzata.

Avrei voluto che Carla fosse lì, perché potesse difendersi, negare, dire che non era roba sua, che lei non c'entrava e che non l'aveva mai vista prima. Ma cosa c'era da negare? Quella era la nostra casa. Cos'è che avrebbe potuto negare?

Rimisi tutto a posto, il letto e la rete, e riassettai le coperte di lana grezza, mettendo il sacchetto sotto il mio cuscino.

Attesi il suo ritorno per ore, spento e quasi senza forza, ma quando lei entrò dando una spallata alla porta semibloccata fui ripreso da una rabbia sorda.

Riuscii a nasconderla, mi alzai e mi diressi verso di lei, la abbracciai e la costrinsi a sedersi sul letto. La accarezzai, con finta dolcezza, feci scorrere le dita sulla sua guancia, fino a toccarle la cicatrice sul mento.

Lei fremette come sempre, ma ora sapevo che era paura e non piacere. La sfiorai ancora, poi la strappai via, rabbiosamente, cercando di farle del male.

Le feci male, ma avrei voluto strapparle la pelle sottostante, scorticarle il viso menzognero e estirparle quelle labbra mentitrici. Al momento dello strappo sul suo viso passò un guizzo di dolore, poi muta alzò gli occhi a guardarmi per un momento lungo quasi quanto una vita. Quando li abbassò ne rotolò fuori una lacrima. Rimase seduta sul letto, senza neanche tentare di fuggire o chiedere pietà. Muta.

Guardai la cicatrice di plastica tra le mie dita, la schiacciai un paio di volte. Più vera di una cicatrice vera. La gettai in terra e la pestai rabbiosammente sotto il piede, poi la strappai dal pavimento a cui si era attaccata e la lanciai in un angolo.

Iniziai a sbottonarle la camicia di pesante tela grezza. Quella che le avevo regalato dando in cambio otto metri di filo di rame che avevo svolto pazientemente davanti alla debole luce della lampada ad olio da alcuni motorini elettrici che avevo preso dalla cabina di comando di un vagone.

Gliela abbassai sulle spalle, con violenza. Guardai la devastazione rossastra che iniziando sotto il seno sinistro le arrivava fino alla vita. Quella devastazione che mi aveva intenerito sin dal nostro primo incontro tanti anni prima. Riuscii ad inserire le unghie tra un lembo e la pelle, e la sollevai, tirando mentre l'adesivo si staccava. Sotto di esso la pelle era bianca e molle ma purtroppo sana.

Immobile. Strappando quella cicatrice falsa come la sua vita le feci male, vidi la sua smorfia di dolore ma non emise un gemito. Rimase seduta, piangendo silenziosa. Finii di strappargliela con tutta la rabbia che avevo, facendola sussultare, poi la alzai davanti ai suoi occhi, quella devastazione di plastica con cui per così tanto tempo ci aveva truffati tutti.

Girò la testa ma la afferrai per la nuca, costringendola a guardarla. Volevo che vedesse la sua menzogna così come la vedevo io. Carla guardava nella direzione dell'inganno, ma sembrava non vederlo, come se gli occhi fossero a fuoco su un suo pensiero affondato nell'infinito. Immobile, come un manichino privo di volontà.

Cercai di buttare in un angolo anche quella falsa cicatrice con un gesto di stizza, ma mi si era attaccata alle dita con forza e dovetti lottare per staccarla.

Anche quella sulla parte interna della coscia destra era falsa, la spogliai anche di quella, e lei non si mosse, finalmente nuda e oscena nella sua nuda verità. Guardai quel suo strano corpo bianco, liscio, senza un cicatrice od un eczema, incontaminato. Vergognoso nella sua purezza.

-- Una Figlia del Rifugio! -- Le sibilai in viso. La odiavo come avevo odiato ed odiavo tutte quelle come lei, donne e uomini. Anzi maggiormente, perché lei non aveva ingannato gli altri, aveva ingannato me.

Non osò guardarmi. -- Mi dispiace, -- mormorò nel silenzio freddo.

-- Cos'è che ti dispiace, di esserti fatta scoprire? -- Replicai cattivo ed indurito nel gelo in cui ero rimasto solo, senza più mogli o compagne

La lasciai sul letto ed uscii, prima che potesse tentare di ingannarmi nuovamente, sbattendo la porta dietro il nostro passato.

Per le scale sconnesse il primo pensiero fu di andare a denunciarla agli Impuristi. Non vedevo i gradini, ma ero ancora dominato dalla visione di quel suo corpo liscio e bianco, incontaminato. A questo punto certamente anche le chiazze prive di capelli sulla testa dovevano essere artificiali.

La pressione nervosa e la rabbia mi fecero uscire il sangue dal naso. Dovetti fermarmi per stagnarlo e quando finii avevo un fazzoletto completamente bagnato di sangue ma in un certo senso ormai ero più calmo. Mi appoggiai ai mattoni scabri mentre dalla gola mi saliva il gemito da bestia ferita che ero riuscito a reprimere sino a quel momento.

Diedi un calcio al muro e l'intonaco si sfarinò sotto il piede, debole e provvisorio come tutto il nostro mondo.

In strada mi mossi senza sapere dove andare, oltrepassai una bancarella di generi di recupero e svoltai in un vicoletto. Solo, nel silenzio della nebbia l'unico rumore veniva dalla fanghiglia che pestavo camminando.

Dopo aver vagato per ore, mi ritrovai casualmente in Piazza, davanti all'entrata del Rifugio delle Esecuzioni. Esitai per un lungo istante guardando la porta d'acciaio infissa nel calcestruzzo ruvido e nerastro, quasi bagnato sotto la nebbiolina che mi faceva rabbrividire. La porta che veniva aperta solo per far entrare un Rifugiato che non ne sarebbe mai più uscito vivo. Perché questo era giusto, perché era sacrosanto, perché era colpa loro se ci stavamo aggirando tra le macerie. Colpa loro e delle loro famiglie maledette.

Il gelo del pomeriggio stava cercando di entrarmi nelle ossa sotto le pesanti pellicce, ma le mie ossa erano già occupate da un gelo molto più intimo e devastante.

Mi fermai a lungo e fui quasi per tornare sui miei passi e dirigermi dagli Impuristi, ma mi diressi verso il fiume.

Lentamente, sul pelo dell'acqua limacciosa scivolano le enormi foglie delle gigantiflora, zattere nere di naufraghi spazzati via dalle onde di un mare nemico. Anche loro sono come noi, diverse da tutto ciò che sia mai esistito prima della Grande Morte. Prima che il mondo si riempisse degli infiniti cadaveri dei suoi abitanti, e prima che uscissimo alla vita noi.

-- Tra una decina di giorni formeranno una diga giù nell'ansa, e bisognerà sfondarla, come tutti gli anni.

Mi giro, il sindaco è vicino a me, ha appoggiato un piede sul muretto a secco e sta stringendo gli spaghi che legano insieme la sua rudimentale scarpa.

-- Vorrà dire che la sfonderemo.

Mi porge una foglia per sigarette ed il sacchetto del tabacco, ma sembra ancora mezzo fresco. Rifiuto ringraziando.

Si gira controllare le lastre metalliche sul carro, provengono dalla fiancata di un vagone della metropolitana, riconosco il bianco e blu in mezzo al quale lavoro.

-- Hai un paio di uomini che sappiano leggere?

-- Forse, ma servono a me.

-- Vorrei controllare i libri nelle biblioteche e scartare i doppioni ed i romanzetti. Forse qualche paese qui intorno sarebbe disposto a scambiarli con qualcosa di utile. Ci serve tutto, abbiamo già finito il cemento per le riparazioni più urgenti.

-- Domani quando torno al lavoro cominceremo un vagone nuovo, gli uomini mi servono, usa le maestre, ciao.

Non è uno stupido, per questo è sindaco, capisce quando uno vuole parlare e quando no. Sale a cassetta e frustato l'asino se ne va.

Rimango a guardare la corrente, ogni tanto gli occhi mi si riempono di lacrime rabbiose e disperate che mi lascio scivolare sul viso come le foglie gigantesche che sul pelo della corrente stanno già iniziando a formare la diga giù nell'ansa. E' questo ciò di cui avrei bisogno, una diga per il dolore. Non riesco ad odiare Carla come sento che sarebbe mio dovere. Come mi è stato insegnato a fare da mio padre e da mia madre. Lei non è un'estranea, una sconosciuta da poter odiare ed uccidere facilmente, senza problemi. E' mia moglie. Mi ha ingannato, ma abbiamo condiviso sempre tutto, momenti buoni e momenti difficili, e la sua vita è stata dura come la mia, forse ancora di più. Sto cercando di immaginare come deve essere cresciuta, con il continuo terrore di essere scoperta. Non ha avuto privilegi. I peccati della sua famiglia li ha scontati tutti.

Dopotutto lei non ha colpa se i suoi genitori avendo un rifugio non si sono preoccupati della possibilità della guerra e non hanno fatto niente per impedirla. Lei non ha colpa, ed anche se travestita si è spaccata la schiena per lavorare come tutti noi, ha mangiato cibo scadente e scarso come tutti noi. E come posso farle una colpa se si è travestita come una spia? Cos'è che facciamo noi ai Figli dei Rifugi? E se non mi avesse mentito, se me lo avesse detto subito, cos'avrei fatto io dieci anni fa, quando per me era ancora un'estranea? Qual'è stata la mia reazione oggi, dopo dieci anni di vita in comune? No, non ha colpa, ed io non sono un uomo con il quale sia stato facile vivere.

Tossisco e per un attimo mi rendo conto di stare morendo di freddo.

Ripenso a tutti i discorsi che posso aver fatto in tutti questi anni di matrimonio sui Figli dei Rifugi, discorsi che per lei debbono essere stati come tante coltellate.

Mi chiedo cosa provasse quando andavamo ad assistere alle esecuzioni dei Figli dei Rifugi, soprattutto anni fa, quando erano molto più frequenti. Mi chiedo come facesse a rimanere ritta lì davanti, tra di noi, tra i nemici dei suoi simili, mentre sentiva una parte di se stessa andarsene con quello sconosciuto urlante, veramente suo simile, che veniva condotto a morte tra le risate e gli insulti di tutto il paese. Le nostre risate ed i nostri insulti. Perché sì, lei ha dei simili, lei non è come noi. Con il continuo terrore di essere la prossima a venire sepolta viva senza cibo tra le derisorie mura di calcestruzzo e piombo del rifugio.

Mi passo il dorso della mano sugli occhi per asciugarli dalle lacrime. E' strano, ma ora sono in grado di rivedere e dare nuove interpretazioni non solo a tanti suoi gesti ma anche ai suoi silenzi, che ora immagino feriti quando io stupido come solo io so essere non capivo che stava cercando di comunicarmi qualcosa che non sapeva o non voleva esprimere a parole.

E' cretino ed ignobile che ci sia voluto un'evento simile perché io riesaminassi una vita intera e cominciassi a capire ed a pormi domande. Capire che non abbiamo mai veramente comunicato. Capire che ci siamo tenuti dentro le nostre cose senza comprendere che la nostra unione è forte, più forte di esse. Ed ecco che nonostante la forza di questa unione io ci scopro estranei, ignoti l'un l'altra, pieni di inespresso ed incomprensioni.

Solo ora mi accorgo che il mio vagare mi ha portato sul fiume nello stesso luogo dove tanti anni fa venni a riflettere su come chiederle di sposarmi. Ricordo il nostro matrimonio. Quella sua grandissima camicia bianca che lei cercava di tenere nei calzoni ma che le usciva fuori ad ogni movimento, e le scarpe buone che un amico mi aveva prestato che mi massacravano i piedi e mi facevano desiderare che tutto finisse alla svelta; quando proprio quello invece avrebbe dovuto essere uno dei momenti, rarissimi in questo nostro mondo di rovine, da far durare il più possibile. La nostra trepidazione come due ragazzi mentre ci guardavamo di nascosto durante l'interminabile sproloquio del sindaco sul dovere di incrementare le nascite e far durare questa nostra specie martoriata. Ecco, questo non siamo riusciti a farlo, non si sa per colpa di chi, e dopotutto anche questa non è una colpa ma un destino. E nessuno sa meglio di noi quanto ci sia dispiaciuto. E poi la nostra stanza, le nostre fatiche per trovare tra le macerie il poco mobilio e le cose di prima necessità. Ed il suo tremare di freddo sotto la coperta la nostra prima notte come marito e moglie nella casa "nuova" a cui mancavano ancora i vetri.

Ed adesso avrei dei dubbi? Dopo anni vissuti insieme posso avere dei dubbi? Ma che razza di uomo sono?

Rimango a guardare la corrente scorrere infinita. Rabbrividisco per l'umidità fredda che sale dal fiume e mi scopro a desiderare la primavera ed il calore dell'estate.

Uomo? Ma non siamo affatto uomini, solo dei topi che vivono tra le rovine di un mondo che non è stato costruito da loro. Incroci strani che vagano costruendo le loro case sconnesse con le macerie di altre case, che smontano vagoni della metropolitana per prenderne i materiali, e che possono costruire solo ciò che gli viene concesso dai pezzi che sono riusciti a smontare.

E noi ci arroghiamo il diritto di sapere e decidere chi deve vivere e chi deve essere chiuso a morire di fame in un Rifugio. Continuiamo a prendere vendette per ciò che è successo quaranta anni fa, e continuiamo a cercare capri espiatori per ciò che siamo oggi. Ma è proprio vero che la colpa fu solo di chi disponeva di un rifugio? O non è che stiamo cercando di salvare dalla colpa i nostri genitori come loro hanno fatto con se stessi?

La verità è che noi Bestie, nonostante tutti i nostri dinieghi abbiamo invidia e paura dei belli perché loro sono rimasti incontaminati. Sono rimasti l'immagine della vera specie umana. Sono loro i veri ed unici legittimi eredi di coloro che sono venuti prima di noi e che hanno costruito tutto quello in mezzo a cui viviamo, mentre noi Bestie, con le nostre escrescenze, le nostre mutilazioni e le nostre emorragie, non siamo altro che scherzi di natura, le scimmie che abitano nella casa degli uomini e che convinte di essere tali odiano e si scatenano contro tutto ciò che può ricordare loro che non è vero. Scimmie usurpatrici che occupano ciò che non è loro, quello da cui sono state strappate da una frattura nel tessuto del tempo.

Ma non siamo neanche scimmie, né topi, non siamo una razza né una specie. I Belli sì, carla ha dei simili, ogni Bello ha un suo simile, qualcuno con cui ha tutto in comune. Ma noi Bestie siamo solo individui. Io con le mie emorragie mensili, Mario con il suo piede deforme, il sindaco con la sua gamba destra che è un pezzo unico dalle dita del piede fino all'articolazione dell'anca. Altri con i loro visi gommosi simili a maschere di carnevale, ognuna diversa dall'altra. Ognuno con una caratteristica sua, personale, che ne fa un esemplare unico, non irripetibile ma irripetuto. E noi... ma se non siamo una specie non possiamo essere neanche noi; siamo io e gli altri. Allora siamo la specie degli scherzi di natura. E noi scherzi di natura assegnamo colpe, diamo punizioni, ci guardiamo intorno pronti a puntare l'indice perché i loro padri, neanche loro, i genitori di Carla, non lei, forse e solo forse sono stati responsabili della catastrofe. Ma com'è stato possibile che poche centinaia di migliaia, milioni forse, abbiamo potuto contare più dei miliardi se questi ultimi non glielo avessero permesso?

Mi alzo, con i calzoni inumiditi dalla striminzita erba verde nerastro. Più vecchio di una vita di quando mi sono seduto. Ed andando lento verso casa inizio il lungo viaggio di avvicinamento a Carla.

Rientro nella nostra stanza. Anch'essa sembra piena di nebbia gelida. La mia prima preoccupazione è di andare a cercare di stagnare il vetro tagliato male, è troppo piccolo e tra il bordo superiore e la cornice del riquadro vi sono due dita di vuoto dal quale entra il freddo. Dovrò prenderne uno di nascosto al prossimo smontaggio. Faccio male, dovrei pensare per prima cosa a Carla, ma per troppo tempo quel vetro è stata la mia prima preoccupazione, ed è difficile strapparsi alle proprie abitudini quando ti sono entrate nella carne.

Lei è ancora lì, nell'esatta posizione in cui l'ho lasciata, nuda, nonostante il freddo. Accendo la lampada ad olio per avere un po' di luce con cui poter accendere la rozza stufa. L'olio d'oliva per la lampada è quasi finito.

Non mi guarda, la testa china sul petto. Come se le avessero recisi i muscoli del collo. -- Per favore, non portarmi in Piazza, ammazzami tu, non farlo fare agli altri, loro non c'entrano, io ho ingannato te e non loro, è una cosa nostra. -- L'ha detto piano, come parlando a se stessa.

Le butto una coperta sulle spalle, per coprirle la schiena nuda e ce la avvolgo. Quando le metto i lembi tra le dita perché possa reggerla li accetta quasi senza accorgersene. Mi siedo accanto a lei sul letto che cigola. La accarezzo lentamente. Passo le dita tra i suoi magnifici capelli biondi che la nostra idiozia la costringe ad assassinare rasandosi la testa a chiazze. Le sfioro la fronte con un bacio.

-- Mi dispiace, capisco come debba essere penoso per te.

Lenta si gira a guardarmi, incredula. Le sfioro il viso delicatamente con la punta delle dita. Cerco di spiegarle qualcosa, ma è difficile. Come la mia rabbia precedente era sorda ed inesprimibile così ora questa tenerezza che mi scopro dentro sembra infinita ed altrettanto inesprimibile, come se non avessi mai amato una donna prima. E non so da che parte cominciare per delimitarla con le parole perché vorrei poter dire tutto insieme, senza precedenze, senza qualcosa che venga prima e qualcosa dopo.

Mi alzo e vado nell'angolo a raccogliere la cicatrice che nella mia rabbia idiota ho buttato. La parte adesiva si è coperta di polvere ed è inservibile. Prendo il sacchetto sotto il cuscino, lei lo guarda quasi senza capire mentre prendo uno dei ricambi. Torno da lei e cerco di riattaccargliela goffamente sul mento.

-- Sai, dobbiamo iniziare a fare a meno di scuse e capri espiatori. Per gli altri ci vorranno anni, ma almeno posso iniziare io

Mentre le sto premendo la plastica sulla pelle cercando di farla aderire, la sua mano viene a sfiorare incerta le escrescenze quasi ossee sulla mia.