Delos 26: Racconto: Draco racconto di

Marco Ramadori

draco

Questo mese la sezione narrativa di Delos è già molto ricca, per via dei due racconti di Lino Aldani che pubblichiamo, abbinati allo speciale su questo schivo e controverso autore. Come terzo racconto ho scelto il lavoro di un autore esordiente, almeno per quanto riguarda la narrativa pura (in realtà Ramadori ha già avuto delle buone esperienze come soggettista e sceneggiatore di fumetti), che riesce a riassumere con un linguaggio inizialmente evocativo e, nel finale, estremamente secco e asciutto, a dimostrazione di un'ottima padronanza delle tecniche stilistiche, un racconto apparentemente già letto, apparentemente già scritto, eppure originale a modo suo, innovativo e rievocativo di un insieme di statements del fantastico che riescono a riallacciarsi con disinvoltura al nero metropolitano e al thriller, sull'onda della commistione dei generi che sta delineando i nuovi scenari della narativa del duemila.

-- Franco Forte

Le umide scaglie rosso-verdastre riflettevano la luce accecante dei due soli gemelli. Il risultato era un fantastico arcobaleno in miniatura, reso ancora più affascinante dal contrasto con quell'arido paesaggio. Ma Anghelos non poteva apprezzare l'incredibile spettacolo di colori: i suoi occhi erano stanchi, gli bruciavano, arsi dal sole dopo ore di estenuante marcia forzata in quel dannato deserto. La sua lunga treccia bionda sembrava un serpente assetato, in attesa, annidato sui poveri stracci che indossava. Ma il Draco era lì, davanti a lui, e solo quello ormai contava.

Nessuno avrebbe potuto dire quando i Monaci di Febos avessero imparato a cavalcare i Drachi, né come fosse nata questa misteriosa simbiosi. Con il loro tozzo corpo da rettile, ricoperto da spesse scaglie, e con quelle improbabili ali da pipistrello che permettevano loro di compiere le manovre aeree più ardite, i Drachi erano uno dei grandi misteri irrisolti di Arkania. Ma durante la Ribellione di Markos, quando le armate del generale ribelle, una volta capo supremo delle Armate di Arkania, stavano diventando una minaccia reale, i monaci cedettero alla volontà dell'Imperatore. E accettarono di addestrare un gruppo ristretto di guerrieri. Nacquero così i Cavalieri dei Drachi.
Anghelos non avrebbe mai potuto dimenticare i duri mesi di addestramento trascorsi sulla Rocca di Febos. Ma lui, scelto misteriosamente dai Monaci vestiti di stracci giunti nel suo villaggio, aveva trovato subito il tutto di una naturalezza estrema. Le sofferenze e le privazioni gli erano serviti a giungere alla rivelazione... alla consapevolezza dell'Unità. Era necessario riuscire a penetrare negli spiriti di quegli esseri, a divenire una sola cosa con loro! Era questo il segreto dei Drachi, gelosamente custodito per secoli dai Monaci. Ed Anghelos si era rivelato ben presto come il migliore dei prescelti. Tanto da venire nominato proprio lui, alla fine dell'addestramento, come Conductor dei Cavalieri dei Drachi.

E poi c'era stata la guerra. Anghelos aveva guidato i suoi Cavalieri in cento battaglie, massacrando dall'alto le orde di Markos. Aveva scolpite dentro di sé le immagini delle lance consacrate che trapassavano i nemici... quelle pietose armate di Terra incapaci di sollevarsi dal suolo! E non avrebbe mai scordato l'ebbrezza del sangue caldo dei nemici e le orgie dopo le vittorie.
Ma era soprattutto il volo a essergli rimasto, indelebilmente, impresso nell'anima. Era innanzitutto la sensazione di sollevarsi nell'aria, libero... senza più legami! Lui, uomo di Aria, si librava felice sopra gli uomini di Terra. E il Draco era il Messia, era lo strumento divino che, attraverso il suo volo, lo portava a contatto con Dio.

Ma la guerra era finita. Markos era stato sconfitto e i Monaci, come da accordi, avevano ottenuto dall'Imperatore che i Cavalieri dei Drachi fossero sciolti, per lasciare ai Monaci stessi, e solo a loro, il segreto di questa divina simbiosi. E cavalcare i Drachi era tornato a essere proibito: tutti gli esseri alati erano stati, nuovamente, confinati nella inaccessibile Rocca di Febos.
Ma per Anghelos non era stato più possibile scordare quell'ebbrezza vitale, quella simbiosi divina. Era come una droga... che non l'avrebbe mai più abbandonato.

E dopo la guerra lui, il grande Conductor dei Cavalieri dei Drachi, aveva dilapidato i suoi averi in puttane e in risse da bettola. Aveva iniziato a vivere di piccoli furti, di elemosine. Si era ritrovato a vagare tra i villaggi di Arkania... un miserabile pezzente! Con quelle sue vecchie storie di grandi battaglie che lo facevano passare per un povero pazzo... per un mentecatto ubriacone interessato solo ai boccali di birra di fasar che qualche avventore pietoso a volte gli offriva, dopo aver riso spietatamente delle sue storie di guerre e di eroi. E questo, nei rari momenti di sobrietà, Anghelos non poteva più sopportarlo. Ma gli eroi si dimenticano presto. E' troppo pericoloso coltivare eroi, in tempo di pace...

L'altro giorno aveva sentito del Draco. Forse era fuggito dalla Rocca dei Monaci, forse non vi era mai tornato dopo la guerra. Ma aveva saputo che era lì, sui dirupi oltre il Deserto del Sale. Ed Anghelos era partito due giorni fa, attrezzato solo dei suoi poveri stracci... e del ricordo dell'eroe che era stato un tempo. Dopo ore di marce forzate era arrivato sull'orlo del precipizio. Sotto di lui la roccia rossa scendeva a picco... una assurda parete verticale. E il Draco era sotto di lui. Non lo vedeva ma lo sentiva. Sentiva il suo odore di alga marcia... quell'odore così forte, penetrante... insostenibile per i nobili ufficiali dell'Impero, per quegli idioti impomatati, orgogliosi delle loro aristocratiche origini e stretti nelle loro eleganti divise di gertex bianco. Ma lui era sempre stato diverso... lui era un Cavaliere dei Drachi, lui dominava le Armate di Terra dall'alto... lui era stato a contatto con Dio!

Ed Anghelos si era calato sulla parete rocciosa... lentamente e con attenzione... come gli era stato insegnato dai Monaci durante le interminabili ore di addestramento sulla Rocca di Febos. E ora ecco lì il Draco... accovacciato sonnolento nel suo nido sul ciglio del precipizio. Ed Anghelos sentì un'ondata di dolore che gli strinse il cuore. Era evidente: il Draco soffriva! Era chiaro... come i raggi di luce bollente dei due soli gemelli che continuavano spietati a ustionargli la pelle. Entrambi erano stati usati dall'Impero e poi gettati via, come stracci vecchi. Il Draco era come lui... un'anima senza più le ali! Certo, il Draco poteva volare... ma era senza guida. Non può esistere felicità, senza qualcuno con cui condividerla.

Il soffio pesante del Draco interruppe i suoi pensieri. E il soffio si trasformò in un immondo ruggito di odio, mentre il sauro inarcava le ali, quelle assurde architetture di ossa nude ricoperte da quelle immense e putride membrane nere, pronto a colpire quel misero straccione.
Ma Anghelos sorrise... e intonò il suo canto. Quella canzone dell'anima, quella melodia violenta da millenni tramandata dai Monaci di Febos. Non erano parole definite: era una sequenza di suoni disarticolati, una litania senza tempo, una preghiera... per entrare in contatto con l'anima del Draco. E il Draco riconobbe il canto... e rispose. Suono su suono, nota su nota. Quello che si svolse quel giorno, in quell'arido deserto, fu il ritrovarsi di due fratelli, di due anime bruciate dalla vita. Ed Anghelos pianse. Iniziò a singhiozzare, come un bambino... non poteva più trattenere le lacrime. Quello era un legame troppo forte, sovrannaturale, divino! Nessuno aveva il diritto di vietarlo, di impedire quella catarsi di due anime!. Anghelos era finalmente felice, felice di nuovo, dopo quella che era sembrata un'eternità.

E, con una rapidità impressionante, Anghelos salì sulla schiena del Draco. Le scaglie del sauro erano umide e fredde, sotto le sue cosce nude.
Il Draco inarcò le ali, sembrava essere entrato in sintonia con l'uomo che lo cavalcava. L'eroe inspirò profondamente l'aria secca del deserto, sentendo con gioia i polmoni riempirsi nuovamente di quell'odore di alghe marce. E i due si gettarono giù, nel vuoto...di nuovo una sola Unità! I veloci colpi d'ala del sauro li fecero sollevare velocemente verso il cielo... verso i due soli gemelli che si stagliavano alti sull'orizzonte. Ma Anghelos sapeva che questa sarebbe stata l'ultima volta. E il cuore gli si spezzò.

Il tenente Marini, della Squadra Mobile di Roma, guardava il corpo del giovane sfracellato a terra, 13 piani più in basso. Ma il tenente Marini pensava solo al corpo caldo di Gina. Era la sua compagna di pattuglia che lui si stava fottendo in auto quando il richiamo della radio glielo aveva fatto ammosciare. E Gina adesso era con lui, in quel cesso di camera d'albergo, fissandolo con quegli occhi da vacca bastonata che avevano fatto innamorare quel fesso del marito. Gina gli stava porgendo il portafoglio del ragazzo, che era andata a recuperare dal cadavere ancora caldo, giù in strada. Erano le 4 del mattino. Questi cazzo di drogati potrebbero anche scegliere orari più civili per farla finita. E doveva essere stato un bel volo. Sporgendosi in basso, attraverso i vetri infranti della finestra, Marini cercava di intuire, tra la solita folla di giornalisti e di perditempo (non che fosse facile distinguere tra le due categorie...) la nuova forma assunta dal corpo senza vita di quel pezzente, una misera marionetta dai fili spezzati
E ricopiò, annoiato, sul suo taccuino, il nome scritto sui documenti intrisi di sangue. Angelo Tempesta. Uno dei tanti drogati del cazzo, uno dei tanti rifiuti umani fagocitati, digeriti e infine scartati dalla città. Uno dei tanti che, dopo la pera quotidiana, aveva deciso di farla finita in bellezza. Spiccando il volo dalla camera al tredicesimo piano di uno degli alberghi più pidocchiosi della periferia urbana. E poi il caldo di questa stanza, senza aria condizionata... insopportabile in questa torrida notte di estate!
E Marini, nel portafoglio di Angelo, trovò anche uno strano disegno, firmato dal ragazzo. Uno strano paesaggio, con uno strano uccello che volava tra due strani soli... le solite stronzate di un drogato del cazzo!

Ma il tenente Marini era un uomo di Terra. Lui non era mai stato addestrato sulla Rocca di Febos, lui non aveva mai guidato i Cavalieri dei Drachi in battaglia, lui non aveva mai goduto del sangue dei nemici sgozzati. E lui non aveva, soprattutto, mai vissuto di elemosine, di pietà, degli insulti dei bravi cittadini onesti che costituivano poi il grosso delle Armate di Terra. Marini non avrebbe mai potuto capire l'ebbrezza del volo... la voglia di libertà... lui non avrebbe mai pianto, davanti al canto di un Draco.

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