Delos 31: Racconto: Monoguerra racconto di

Milena Debenedetti

monoguerra

Milena Debenedetti è un'autrice che seguo da tempo. Ho notato subito il fatto che tende sempre a piazzarsi in finale ai premi più importanti, e quello che ho letto di suo mi ha confermato che si tratta di una scrittrice con buone qualità letterarie. Fino a ora le prove migliori di sé (almeno secondo il sottoscritto) le ha date nel fantastico, ma con questo Monoguerra compie un'incursione di notevole livello anche nella fs pura. (Franco Forte)

Era lì che stava galleggiando nella sua pozza di buio. Una sfera alla deriva. Un embrione nel suo liquido amniotico, misterioso, oscuro, antico come la notte. Una nave nel più denso e cupo dei mari, scosso da onde profonde, minacciose, ululanti, tra relitti di sinistri naufragi passati, a perenne monito di ciò che attendeva gli incauti. Seguiva le correnti invisibili, le tracce che solcavano l'infinito. Quelle che anche il nemico percorreva.

Ma no, non le piaceva immmaginarsi dispersa, senza una meta. Preferiva vedersi come un albero, dalle radici profonde che arrivavano a stritolare la roccia. Un albero gigantesco, maestoso, che sfidava le intemperie senz'altra reazione che un fremito dei rami. Orgoglioso e possente, solido, immutabile e immobile.

Questa era anche l'immagine che il suo istruttore aveva approvato, durante l'addestramento. - Ecco lo spirito giusto - le aveva detto.

Un leggero pizzicore alla pelle. Ancora sensazioni, insulse, inutili sensazioni. Odiava gli aghi minuscoli che cercavano le sue vene, odiava la stupidità meccanica della macchina che la teneva in vita.

Azione, reazione. Chimismo, metabolismo, analisi, perfetta efficienza. Ogni valore doveva oscillare nei limiti previsti, e il sangue scorrere controllato e perfetto. Una minuziosa opera d'arte. Anche il suo stato emotivo doveva rimanere sotto ispezione: era arrivata a temere ogni sua singola, piccola sensazione, ogni reazione, ogni pensiero, perché subito gli stupidi zelanti aghetti facevano il loro dovere, sondando, iniettando, controllando.

Le pareva quasi di sentire endorfine e adrenalina fare a pugni. Le pareva di ascoltare il sangue scorrere e il cuore battere.

Un'altra immagine: lei era la sorgente, la fonte, la madre di tutti i fiumi, che lentamente scendevano a valle, prima in un mormorio sottile, poi in cascate impetuose, sferzando le pietre, e infine attraverso larghe distese di torbida acqua verdastra, dai pigri fianchi sinuosi, sino a perdersi nella vastità dell'oceano. Lei era la forza della vita, che sfiorava e benediva la terra.

Ecco, c'era quasi riuscita: si stava avvicinando. Quella miscela di droghe naturali giungeva al punto in cui nessuna droga artificiale era mai arrivata, l'istante ardentemente desiderato da chiunque avesse mai usato quelle sostanze. L'assoluto benessere, il perfetto equilibrio. Il più puro e inesprimibile dei piaceri, molto al di là del sesso e delle passioni.

Solo per quell'attimo sarebbe valsa la pena. Durava appena un istante, il tempo di contemplare da lontano la riva di un immenso lago dall'acqua profonda e immobile: e già si tornava alla realtà. Ma contrariamente alle droghe di un tempo, quella non lasciava istupiditi e non faceva stare male, dopo: rimaneva solo la più perfetta, la più assoluta calma.

Bisogna annullarsi per esistere, recitava il motto della sua squadra, impresso sulle mostrine della divisa e inciso sulla parete metallica della capsula. Da parecchio tempo lei aveva imparato quanto fosse dannatamente vero.

- Fatto buon viaggio?

Fu tentata di rispondere con una imprecazione. Ma sapeva già cosa sarebbe seguito. La voce le avrebbe ricordato, garbatamente: E' perfettamente inutile insultarmi. Sono un tuo superiore e una personalità sintetica computerizzata.

Così, si limitò a mormorare, sibilando: - Di merda, grazie. Ogni volta sembra che duri meno. E poi torno qui, e rivedo questo metallo arrugginito, e risento la tua stupida voce.

- Stupida? E' stata sintetizzata sulla base dell'inflessione di un centinaio di attrici famose, con l'accento di più di venti sistemi planetari diversi. Mi stupisce questa definizione.

Rinunciò a replicare. Sul senso dell'umorismo dell'entità detta Sergente non c'era da contare. - Ti ricordo che sono un tuo superiore. Anche se non ho il potere immediato di punirti, ogni infrazione al regolamento viene registrata e catalogata, e ti sarà contestata al momento del congedo.

Il congedo... che espressione ridicola. Aveva smesso di crederci da un pezzo, che tutto potesse finire, un giorno. Che lei potesse uscirne viva. E quand'anche il miracolo fosse avvenuto, non le riusciva di immaginare il seguito. Forse, si sarebbe semplicemente ritirata in solitudine, da qualche parte.

Che cos'altro avrebbe potuto fare? Non era come gli altri, non lo sarebbe mai stata. Uno stupido, insulso e incolore clone. Così la consideravano. Un abbozzo di vita. Avrebbe potuto anche solo tentare di comunicare con loro? Reggere le loro espressioni di pena e orrore? Sarebbe mai riuscita a descrivere cosa si provava davvero lassù? O la sensazione bizzarra delle estensioni sensorie, degli innesti che aveva al posto delle gambe, tutt'uno con la struttura metallica della capsula?

No, erano loro da commiserare. Quella vita virtuale che lei stava vivendo, i ricordi costruiti e i sogni e le immagini e i desideri, e poi l'attimo bruciante della lotta, quell' irrigidirsi nel corpo e nello spirito, per resistere al più inimmaginabile, al più indescrivibile dei nemici... valeva cento delle loro insulse esistenze da vermi.

- Be', è il dramma di quasi tutti i reduci, credo. L'impossibilità di una vita normale.

Si era dimenticata delle limitate capacità telepatiche del Sergente. Non sapeva veramente leggere i pensieri, ma poteva prevederne l'evoluzione a partire da migliaia di modelli matematici possibili, in funzione della curva mentale dei suoi sottoposti, delle attitudini umane medie e delle espressioni facciali. E lei non aveva mai imparato a controllare i muscoli del viso.

- Dramma un accidente! - reagì, bellicosa. - Me li mangio, quei bambocci di civili.

Appena pronunciata quella frase si sentì insopportabilmente ridicola, nonostante il Sergente approvasse subito.

- Bene. Sempre aggressiva, soldato, mi raccomando. Le malinconie sono pericolose, lo sai.

Se non lo sapeva... I Tessitori si erano assorbiti un soldato che per un attimo aveva pensato alla mamma. Così recitavano i vecchi slogan. Questo prima che si iniziassero a impiegare cloni da laboratorio, ovviamente.

- Che si fa, adesso? - chiese quasi allegramente, in un tentativo di sviare il Sergente e farle credere che lo stato di benessere indotto dalle autodroghe persistesse.

Voleva tanto tornare alla sua vera vita. Camminare con gambe autentiche, giovani e forti, per le vie della metropoli che ben conosceva, sorridere e scherzare con gli amici, al calore di un sole lontano, e cavalcare i grandi pesci vela nei tramonti splendenti di verde e d'oro, godendosi gli spruzzi del mare. Voleva sorvolare deserti e pianure, montagne e città orgogliose, e vivere qualche dolce e romantica avventura insieme a uno di quei gentili e affascinanti uomini dalla pelle ramata.

Quel pianeta - il pianeta che ora era il suo mondo, il pianeta bellissimo e fertile che la razza umana aveva ammirato e colonizzato - era esistito davvero. Ciò che lei vedeva e viveva non era invenzione, ma una perfetta ricostruzione basata sull'archivio del computer di bordo.

Sì, quel pianeta di cui non conosceva neppure il nome era stato vivo, un tempo. Ma era stato uno dei primi a essere annientato, spietatamente inglobato dai Tessitori. E la rabbia che provava ogni volta che riemergeva dal sogno, ogni volta che rammentava, faceva anch'essa parte dell' addestramento. L'odio costante, freddo e implacabile era la sua vita stessa, le dicevano. Guai a dimenticarlo, sia pure per un istante.

- Esercitazione - ordinò il Sergente. - Costruzione sensoriale completa.

- Cosa?

Meccanicamente il suo sguardo andò alla spia d'allarme, di fronte a lei. Era ancora verde brillante.

- Non siamo in zona operativa.

- Sei giù di forma, ultimamente. Un po' di lavoro extra ti farà bene.

Galleggiava in una penombra ovattata. Era come trovarsi in una stanza buia, vagamente abituati all'oscurità, tanto da percepire in qualche modo le pareti intorno, ma senza distinguere nulla dell'ambiente. Istintivamente allungò le mani, cercando di procedere a tentoni, e mentalmente imprecò, pensando con nostalgia al suo pianeta di sogno. Se il suo disappunto rimaneva registrato nello psicotracciato, tanto meglio: almeno quella strega di Sergente avrebbe saputo come la pensava. Non le rimaneva altro sfogo che prendersela con una personalità sintetica. Certo che dava ben poca soddisfazione. Non le era mai riuscito di immaginare che aspetto avrebbe potuto avere il Sergente, se fosse stata viva e reale. Anche se, nei suoi incubi peggiori, la vedeva come un'altra se stessa.

Si stupì notando come la sua persona risultasse distinguibile anche al buio, avvolta di leggero chiarore, quasi fosse fosforescente. Sono uno spettro? pensò sghignazzando.

Se lei lo era, ce n'era almeno un altro in vista. Una figura immobile, emersa dal nulla, che la fissava. Si avvicinò, incuriosita.

Era un uomo, non molto alto, dalle spalle robuste e sproporzionate al resto della figura. Tutto questo le risultava familiare: anche lei, come ogni Unità Monoguerra, era così.

Si stupì di incontrare un suo commilitone in esercitazione: di solito si ritrovavano solo in officina, per farsi rimettere in sesto insieme con la capsula, e anche allora comunicavano prevalentemente via radio. Battute sui rispettivi Sergenti, tentativi di finta allegria e roba del genere.

Fu certa che lui era dei loro ancora prima di distinguere la divisa verde e la piega vagamente innaturale delle gambe sostituite.

Lo avevano promesso anche a lei, al congedo, un innesto di gambe vere. Non ci aveva mai voluto credere. Eppure nelle esercitazioni si vedeva sempre così, con le sue nuove gambe.

Avvicinandosi finì di mettere insieme i pezzi della figura di fronte a lei: un viso quadrato, ma non eccessivamente duro, corti capelli neri, e due occhi chiari dal taglio obliquo, che la colpirono subito. Benché sembrassero appannati, provati dalla vita, vi galleggiava come un residuo di disperata fanciullezza.

- Ciao, soldato - la apostrofò il suo interlocutore, con voce profonda e dolce, del tutto in carattere con il fisico. - Mi chiamo Stratos. E tu?

- Ada. Tu sei... sei reale?

- Per quanto ne so io, sì. Là fuori, da qualche parte - fece un gesto vago. - Non sono abbastanza aitante per essere una tua proiezione, immagino.

Sorrise alla sua stessa battuta. Eppure il suo sguardo era così malinconico, ombroso, in contrasto con quel sorriso, da catturare l'attenzione di lei e accentuare la sua curiosità.

- Non esserne sicuro - replicò, con improvvisa civetteria. - Come puoi credere di conoscere i gusti di una donna? Voi uomini invece siete cosi' trasparenti

Aveva notato come lo sguardo di lui si fosse subito appuntato a osservarle il seno.

Stratos si portò una mano al cuore, mimando una finta sofferenza.

- Colpito e esploso. O.K., soldato, ho imparato da un pezzo che è più pericoloso mettersi a discutere con una donna che sparare ai Tessitori. Non ho mai capito la vostra ossessione per la parità, visto che siete già innegabilmente superiori.

Lei sbuffò, poco convinta. Eppure Detta da chiunque altro, quella frase sarebbe sembrata una stupida sviolinata galante, del genere che lei detestava: ma Stratos non le sembrava affatto il tipo del bellimbusto. Anche perché subito dopo aggiunse, in tono quasi brusco: - Certo questo posto non è il massimo, per approfondire la nostra conoscenza. Sei tu che conduci le danze: davvero non sai fare di meglio? Mi sa che i Tessitori hanno già l'acquolina in bocca. Proprio un bel pesciolino pronto per la Rete.

Lei arrossì al rimprovero, anche se nel buio la sua espressione andò persa.

- Migliorerò - promise.

Dal buio emersero nettamente i contorni di una porta, oltre la quale si intravedeva un vago chiarore. Ada per prima vi si accostò e l'aprì. Oltre, c'era un'ampia terrazza, disseminata di grandi vasi che contenevano arbusti aromatici, fiori profumati e splendenti. Una fontana mormorava con discrezione tra le piante. Un vero e proprio giardino pensile.

Oltre il parapetto, il panorama si apriva su un ampio golfo circondato da basse colline. In lontananza, si intravedevano le luci di una città, tremolanti, che disegnavano contorni fiabeschi. Una grande luna piena si specchiava nelle limpide acque tranquille, che si frangevano con discrezione in tante piccole onde, sulla spiaggia.

Ada indossava ora un lungo abito bianco, che le lasciava scoperte le spalle. Stratos un lucido completo argenteo.

- Non male - commentò Stratos, poggiando le mani sulla balaustra. - Mi rimangio tutto quello che ho detto. Tranne la battuta sulla superiorità delle donne, ovviamente.

Le sorrise con tanto calore che si sentì sciogliere. Si biasimò subito per quella sua debolezza, e quasi vergognandosi distolse lo sguardo.

Stratos forse se ne accorse, ma mostrò di non darvi peso. Proseguì, in tono colloquiale: - Hai messo su proprio un bell' ambientino. Che posto è? Il tuo pianeta-casa?

A ogni Monoguerra era stato assegnato un diverso pianeta scomparso. Perché rammentassero. Ma lei non voleva contaminare esercitazioni attive e vita virtuale. Aveva il vago sospetto che questo facesse rischiare la pazzia.

- No, è la Terra. Un'immagine di tanto tempo fa.

- Hmmm. - Stratos annuì, con aria di approvazione. - Ricordi di famiglia?

- No, io... - Ada arrossì, e in lei si confusero vergogna e rabbia, come ogni volta che doveva ammettere la sua origine - Io sono un clone. Da materiale genetico terrestre conservato in laboratorio. Il mio originale è morto da tanto tempo... migliaia di anni, credo. Ma a volte ho delle sensazioni... Immagini vaghe, luoghi, volti... Non hanno niente a che fare con la mia programmazione. I cervelloni dicono che è una cosa tipica di molti cloni. La chiamano memoria genetica.

La sua voce era andata via via abbassandosi, riducendosi a un mormorio, a mano a mano che si addentrava a confessare il suo io più segreto. Temeva sempre di suscitare repulsione nel suo interlocutore.

Ma un Monoguerra non si impressionava certo per così poco. Stratos rimase impassibile.

- Già - mormorò - avevo sentito che stavano iniziando a impiegare i cloni. I terrestri puri scarseggiano, da quando il pianeta è stato abbandonato. Loro convincono ad arruolarsi anche chi ha solo metà, o addirittura un quarto di sangue terrestre. Ma non sono altro che poveracci da mandare in prima linea, a fare da esca. Bastardi! A volte non so se odio più i nostri capi o i Tessitori.

- A chi lo dici. - Ada sospirò, annuendo con comprensione. Poi di colpo trasalì, ripensando alla prima frase di lui. - "Iniziando a usare i cloni"? Ehi, bello, da quanto tempo gironzoli per la Rete?

Stratos si oscurò, e Ada subito si pentì di aver parlato.

- Da troppo. Non ricordo più l'inizio, e non riesco a credere che ci sarà una fine.

- Scusami. Non intendevo offenderti.

- Non mi hai offeso.

- E neanche rattristarti.

- E chi sarebbe triste? Non ce lo possiamo permettere, soldato. Con tutti quegli aghetti che ci sforacchiano.

Stratos fece un gesto vago con la mano, e fece un sorriso stranito, così diverso da quello caloroso e cordiale di poco prima, da causarle una vaga inquietudine. Molti Monoguerra erano impazziti. O forse non ce n'era più neppure uno sano di mente.

Per riscuotersi, in tono forzatamente gaio annunciò: - Allora, aspetta di vedere cosa sto per fare!

Si voltò orgogliosa verso un tavolino, su cui campeggiavano una bottiglia di vetro di foggia antiquata e due bicchieri.

- Autentico vino terrestre. Assaggio prima io, se permetti. Non si sa mai.

Versò, assaggiò e annuì approvando. Dopo aver riempito anche il bicchiere di lui, brindarono sedendosi su due comode poltroncine accanto al tavolino.

- Buono. Memoria genetica anche questo?

- Magari! No, è solo il massimo di simulazione computerizzata che mi è concesso. Almeno ha il vantaggio di non ubriacare. Anche se non so se sia un vantaggio.

Dopo che ebbero sorseggiato il vino per un po', in silenzio, Ada chiese, piano: - Come ti hanno arruolato?

- Mi sono offerto volontario. Avevano rintracciato il mio codice di terrestre nell' archivio genetico, ma ce l'avrei fatta ancora a scappare altrove, se avessi voluto. Solo che non volevo. Ne avevo abbastanza della mia vita. Sai quando nasci già sfortunato, con la miseria nelle ossa e nessuna speranza avevo fatto troppe cose, per campare, e di quasi tutte mi vergognavo. Compreso far la pelle al mio prossimo per denaro. Combattere non mi spaventava certo. Almeno qui hai uno scopo nobile, no? Sei un eroe.

Ada provò a immaginarsi come potesse uno arruolarsi di sua volontà. Rinunciare spontaneamente alle proprie gambe. Ridursi a una macchina vivente dentro una specie di scatola. Un umano vero, non un clone programmato come lei.

- Che tu ci creda o no, è stata la prima possibilità di scelta che ho avuto in vita mia. E poi, ora non devo più sbattermi per la dose quotidiana. Come Monoguerra te la danno gratis, e meglio di qualsiasi altra. Che fortuna, eh?

Ada non commentò. Stava a capo chino, pensierosa e silenziosa. Sentì che lui proseguiva: - Per te dev'essere stato diverso. Non ti hanno lasciata scegliere, vero?

Rialzò la testa, incredula. Il tono era veramente dolce. Autenticamente comprensivo. Nessuno le si era mai rivolto così. Nessuno parlava in quel modo a un clone. Allora, non era stato gentile con lei solo perché la credeva una vera donna

Il cuore aveva iniziato a batterle più forte, andandosene per conto suo a dispetto di ogni programmazione. Cercò di frenare quel calore strano che avvertiva nel petto. E le lacrime che premevano, appena dietro lo schermo degli occhi. Ma la sua voce tremava, ridotta a un mormorio sottile.

- Per me diventare un Monoguerra è stato un miglioramento. Sai io non mi avevano clonata per combattere, in un primo tempo. Era per esperimenti sessuali e riproduttivi.

Si interruppe, e chinò la testa.

- In quel laboratorio non c'era niente di umano. Ma un clone è umano, dopotutto. Pensa come un umano. E soffre, anche.

Avvertì un tocco sul viso: una leggera carezza. Rialzando lo sguardo, vide che Stratos la stava fissando con autentica comprensione, e sembrava sul punto di dirle qualcosa, come per consolarla. Ma la sua espressione cambiò di colpo.

Si alzò, e sollevò il bicchiere in un brindisi ironico.

- Una bella accozzaglia di relitti, per salvare l'Universo. Bisogna annullarsi per esistere. Ma noi siamo già nulla.

La risata che seguì aveva davvero qualcosa di folle. Allora, fu Ada a provare l'impulso di consolarlo.

- Non dire queste cose, Stratos. Non pensarle neppure per un istante o ti perderai, lo sai. Che dovrei dire io, allora, che sono solo un abbozzo di essere umano...

Lo sguardo di lui riacquistò lucidità. Scosse appena il capo, tornando a carezzarle il viso.

- Sai che ti dico... sei la donna più bella che abbia mai incontrato.

Si avvicinarono. Quasi senza accorgersene si ritrovarono a baciarsi. Ada avvertì lo stesso calore di prima, ma l'intensità era quasi insopportabile. Nessuno dei suoi romantici accompagnatori dalla pelle ramata le aveva mai fatto provare una sensazione simile.

Si sciolsero, e Stratos aveva gli occhi fiammeggianti.

- Noi Terrestri. Gli unici. I migliori. I soli che possono salvare la razza umana. Perché siamo carne e sangue e passione. Conosciamo bene la guerra: abbiamo rischiato di distruggerci con le guerre. Mentre i popoli dei pianeti evoluti sono così incolori e scialbi Hanno i soldi, certo. Le loro mani sanno maneggiare solo quelli, e hanno bisogno che qualcun altro faccia i lavori sporchi che uccida e torturi e massacri per loro

La sua voce si era fatta strozzata.

- Sai... a volte ricordo quelle mani flaccide e bianche che mi porgevano i soldi, e lo schifo con cui mi guardavano. Quei vermi assassini. Allora, mi pare di non avere più forza per combattere. Perché in fondo penso sia giusto che i Tessitori ci inghiottano tutti.

Sembrava impietrito, lo sguardo perso nel vuoto. Ada gli si avvicinò, afferrandogli le spalle.

- Non ricordare più, Stratos. Non pensarci mai più.

Di colpo il sangue le affluiva più veloce nelle vene, e si sentiva un'energia nuova, una vaga speranza. Un uomo, un vero uomo, la guardava con dolcezza. La stringeva fra le braccia. Forse, avrebbe potuto persino innamorarsi di lei. O magari l'amava già.

I sentimenti si stavano gonfiando come un'onda, e quest'onda non riusciva ancora a venire alle labbra, a trovare parole per esprimersi. Forse perché nessun addestramento gliele aveva insegnate. Si lasciava semplicemente abbracciare, godendo il calore di quella stretta e ricambiandola, cercando di infondere anche a lui un po' della speranza che sentiva

Ma in quello stesso interminabile attimo, le immagini iniziarono a frangersi come cristalli. La luna crollò in pezzi sul limpido mare notturno, la città dalle mille luci si trasformò in uno sciame di insetti impazziti.

- Non è possibile - balbettò Ada, smarrita - Non eravamo in zona operativa... Non può essere...

Si voltò a guardare Stratos, e si sentì agghiacciare. Nei suoi occhi era riflessa la realtà che sempre li minacciava. Come in uno specchio del suo stesso animo, vide la maschera di determinazione sul viso di lui.

- Non può essere - ripeté. E l'eco sconfortato di questa frase si ripercosse sulle familiari pareti metalliche della capsula.

Era tornata nel suo ambiente di sempre. La luce di fronte a lei era rossa, e lampeggiava il segnale di attacco. Con la calma imposta dall'addestramento ricevuto, cancellò ogni pensiero e si predispose ad andare all'assalto.

Le sue mani correvano veloci a sfiorare i sensori. Il casco di collegamento le era sceso automaticamente sulla testa, sostituendo la piastra frontale dell'esercitazione.

In un attimo, il suo cuore aveva rallentato i battiti, e i suoi occhi contemplavano il tessuto misterioso della Rete.

I Tessitori avevano fatto un grande regalo, all'umanità; durante la loro prima incursione nella galassia conosciuta, osservando i loro spostamenti, era stata fatta una scoperta sconvolgente: lo spazio non era quel vuoto uniforme e infinito che si credeva, ma era percorso da un vero e proprio intrico di "vie", che si congiungevano e si intersecavano, riconoscibili come differenze di potenziale e di energia. E imparando a tracciare e percorrere nel giusto modo quelle vie, era possibile saltare da un capo all'altro di sistemi lontanissimi.

Così, sfruttando quella conoscenza, l'umanità aveva rapidamente colonizzato molti mondi abitabili. Ma un migliaio d'anni dopo quella prima missione esplorativa (il tempo per loro sembrava avere ritmi ben diversi da quelli umani) i misteriosi esseri erano tornati per reclamare il loro tributo. Ed era stato un prezzo molto alto.

Si sapeva poco o nulla di loro. Impossibile descriverli, rilevarli, comunicare con loro, men che mai catturarli. Anche la definizione "esseri" era un puro arbitrio. Forse non erano che emanazioni di un'unica entità. Ciò che meglio li approssimava era l'idea di lampi guizzanti di energia, a volte luminosi, a volte quasi invisibili sullo sfondo del cielo. Solo sofisticati strumenti potevano riconoscerli e segnalarli. Erano ciò che di più estraneo e alieno alla vita biologica si potesse immaginare.

E se la prima volta si erano limitati a osservare, percorrendo lo spazio, ora erano passati all'azione: inglobavano mondi interi, inghiottendo tutto ciò che vi esisteva e costruendo una trama sempre più fitta e vasta, una vera e propria ragnatela di canali energetici, un solido tessuto su cui prosperare.

Per questo erano stati chiamati "i Tessitori", e si era capito che quelle vie nello spazio erano state create da loro, forse in tempi lontanissimi, come un canovaccio su cui ricamare il loro impero. Si sospettava che si nutrissero e crescessero a spese della materia organica che inghiottivano, ma anche delle emozioni e dei pensieri collettivi.

Nulla di più era dato comprendere: ma l'umanità era combattiva, non si rassegnava alla distruzione, per quanto incomprensibile e invulnerabile apparisse l'ignoto, e aveva imparato a percorrere la Rete.

Così, eserciti interi, flotte di astronavi da guerra, munite di ogni arma conosciuta, chimica, energetica, batterica, furono inviate contro gli assalitori. Vennero assorbite tutte con estrema facilità e indifferenza, come insetti molesti da schiacciare. E altre ancora andarono all'assalto, con disperata ostinazione, mentre nuovi mondi diventavano relitti spenti nella Rete.

Ormai l'umanità era stremata, quasi rassegnata alla fine. Finché accadde l'imprevedibile: durante uno dei tanti, disperati assalti, un soldato che, in preda al furore e alla pazzia, era salito su una piccola capsula di salvataggio e si era lanciato contro le scintillanti nuvole di energia, vomitando insulti e sparando all'impazzata con le armi di bordo, fu recuperato al capo opposto della galassia. Delirante, con la mente irrimediabilmente sconvolta. Ma vivo. E nel luogo dove si era svolta quella disperata battaglia solitaria fu avvertito un calo di energia, un leggero arretramento degli invasori.

Dunque, forse un insignificante piccolo veicolo poteva riuscire a penetrare nelle loro difese.

Aggrappandosi a quella debole speranza, nugoli di capsule monoposto furono mandate all'assalto. Non una tornò. Ogni tipo di indagine allora fu condotta sul soldato sopravvissuto e impazzito, ogni analisi e ricerca possibile, fino a scoprire che ciò che lo distingueva dai suoi commilitoni era solo la stretta origine terrestre: i suoi genitori avevano da poco lasciato il pianeta.

Cento terrestri volontari affrontarono il nemico, su veicoli spaziali monoposto attrezzati con le semplici armi di una scialuppa di emergenza. Novanta tornarono vivi, anche se confusi e danneggiati nella mente. E fu avvertita una consistente perturbazione nel fronte dei Tessitori. In particolare, là dove un soldato era casualmente penetrato in uno dei nodi del sistema, un punto in cui più linee si intersecavano, ed era riuscito a colpire con precisione, si era creata una depressione energetica che non pareva più possibile colmare, per i nemici: una vera e propria ferita inguaribile.

Si comprese che solo i terrestri avevano la struttura mentale adatta per resistere più a lungo alla pressione del nemico, abbastanza da poter arrivare in zona di tiro. E si fece di tutto per potenziare la loro resistenza.

Così fu creato il corpo delle Unità Monoguerra. Così l'invasione fu arginata, sia pure lentamente e a prezzo di molte perdite. Addestrati per resistere allo sconvolgimento mentale dell'assalto diretto, allenati a mantenere ben vivi e saldi quei sentimenti che soli potevano mantenerli lucidi, nel momento di colpire...

Ada pilotava scorrendo sui canali. Attraverso il casco ne vedeva l'intrico, e muovendo le mani sui sensori imprimeva alla capsula la direzione voluta. La sua traiettoria era volutamente elaborata, i suoi cambi di velocità bruschi e repentini: era importante, nei primi istanti, impedire che il nemico la identificasse con chiarezza. Almeno non fino a quando fosse giunta nel cuore del pulsare luminoso di energia.

Le sensazioni di disturbo non la colsero impreparata: non era certo la prima volta che fronteggiava i Tessitori. Le ondulazioni delle immagini, le scosse simili a scariche elettriche, le deformazioni del suono... tutto le era ben noto. La loro debole entità le diceva solo che era ancora lontana dal bersaglio.

Chissà cosa si prova a venire assorbiti pensò improvvisamente. Nessuno certo era mai tornato indietro a raccontarlo, se fosse una fine dolce, o lenta e orribile più di ogni altra.

Ma scacciò quel pensiero con rabbia: era pericoloso indulgere in simili considerazioni. Si concentrò di nuovo con tutta se stessa sull'intrico della Rete. E ben presto emise un'esclamazione di stupore: ciò che aveva di fronte, e si avvicinava vertiginosamente, era un nodo di energia, il confluire di mille canali, il più luminoso che avesse mai visto, che vibrava e tremolava, cambiando rapidamente tutti i colori dello spettro, dal caldo giallo al più freddo violetto. Vi si tuffò con ardore, puntò dritta su di esso, come per immergersi in quello spettacolo di luci.

I disturbi aumentavano. Le immagini si frangevano come onde, le pareti della capsula non erano che saette zigzaganti, strisce di metallo, spire di serpente. Chiuse gli occhi, resistendo alla nausea che la assaliva, evitando di guardare, concentrandosi solo sulle immagini esterne trasmesse dal casco. Le sonde premurose iniettavano inutili calmanti.

Ma non poté evitare il suono. Lo conosceva fin troppo bene, nella sua mente lo associava sempre agli invasori: un fruscio sommesso, innaturale, che si poteva solo lontanamente descrivere. Come il mormorio di milioni di fedeli in preghiera, il ronzare di uno sterminato alveare, un brusio di voci, un frullo d'ali, uno scroscio di pioggia. Il suono batteva e percuoteva la sua mente, era un bussare insistente, ossessivo, era la morte stessa che chiedeva il permesso di entrare. A volte pensava che fossero le grida disperate degli assorbiti, che ancora echeggiavano nelle profondità dello spazio. E non l'aveva mai sentito così forte.

Il panico le assalì la gola, mentre il suono saliva di tono, si faceva stridulo come una distesa di seghe, trapani e martelli in azione tutti insieme.

Boccheggiò, ansimò, strinse forte il metallo del quadro comandi, ormai rovente per il calore, cercando conforto delle sensazioni. Per resistere, cominciò come sempre a richiamare altri pensieri, ad abbandonarsi ai sentimenti e alle passioni umane, a ritrovare se stessa nel ricordo del pianeta che un tempo era, e ora non più. Ma questa volta, alle immagini sbiadite della sua favola irreale si sovrappose il volto di Stratos, ben più concreto. Risentì il calore delle sue braccia, l'eco della sua voce così insopportabilmente dolce e comprensiva.

Si fece forza. In fondo, chi meglio di una donna conosceva la paziente sopportazione? Resistere, a qualsiasi costo, anche nei momenti peggiori. Accettare stoicamente dolore e privazioni. Infondere agli altri coraggio e speranza. Questo valeva più dell'odio degli uomini, che avevano cercato di insegnarle.

E lei lo era, una donna. Una vera donna. Le mani tornarono a dirigere la rotta, la mente a seguire il cuore pulsante del nodo. E vi si diresse a tutta velocità, lanciata come un proiettile, gridando a occhi sbarrati, finché le forti vibrazioni che scuotevano la capsula la costrinsero a reggersi al sedile, finché i molti suoni divennero uno solo, stridente, lacerante, incessante. E la capsula sembrò esplodere nella luce.

Il ronzio dei sistemi di mantenimento, discreto e familiare, la risvegliò. Non aveva più il casco, ma un rivestimento imbottito intorno alla testa, imbevuto di antidolorifici.

Infatti la testa le doleva. Senza badarvi, per prima cosa controllò lo stato della capsula, attivando i circuiti di monitoraggio. Sembrava tutto a posto: un allarme si era messo a ronzare incessantemente, in sottofondo; ma non era che un tubo del circuito di refrigerazione staccato, roba da poco. Lo avrebbe fatto riparare dai microrobot più tardi. Niente di urgente.

- Complimenti, soldato. Hai distrutto un nodo molto importante. In molti avevano tentato prima di te, senza riuscirci. Grazie a te, l'avanzata nel settore Z-B-5 è stata arrestata. Verrai proposta per una onorificenza.

- Ne ho già quattro o cinque, e non so che farmene. Lasciami in pace, Sergente.

I Sergenti non erano di nessun aiuto, durante gli assalti. Erano solo buoni a pontificare e blaterare dopo, a parlare di eroismo e altre stronzate. Come i Sergenti di tutti i tempi, del resto.

Si abbandonò quasi incredula al rilassamento, osservando la tranquillizzante lucina verde, controllando sulla carta celeste dove si trovava ora. Al capo opposto della galassia, naturalmente. Come sempre dopo ogni combattimento.

Subito la assalì il ricordo di Stratos, e per qualche tempo si perse in sogni romantici. Ma poi la razionalità riprese il sopravvento, e una vocina dentro di lei le suggerì che qualcosa non andava. Troppe coincidenze.

Di colpo, si sovrappose bruscamente l'ultima immagine di lui, il viso irrigidito nella più profonda concentrazione, la consapevolezza stessa della morte. Si sentì agghiacciare: nessun Monoguerra sarebbe potuto sopravvivere a un'espressione del genere. E i suoi atteggiamenti di poco prima, il passare bruscamente dalla più tetra amarezza all'euforia ingiustificata... glieli avevano descritti troppo bene, quei sintomi. Erano quelli di chi stava per saltare. Era sul punto di perdersi.

- Stratos... - mormorò, disperata, chiudendo gli occhi.

Lo immaginò a poca distanza da lei, con la sua capsula. Non aveva saputo proteggerlo né salvarlo.

Ma anche quell'ingiustificato senso di colpa svanì, e la logica prese altre strade. Riaprì gli occhi, fissando la griglia da cui usciva sempre la voce del Sergente, come se la volesse distruggere con lo sguardo.

- Non esisteva - accusò, cupa. - Non è mai esistito. Un'altra delle vostre fottute proiezioni.

Il Sergente rispose con la sua solita voce piana e pacata.

- No, il soldato Stratos Lee Chang è esistito veramente. Un eroe, che si arruolò volontario e condusse a termine molte vittoriose missioni, prima di soccombere. Circa cinquanta anni terrestri fa. La sua personalità era stata registrata su computer, a scopo di studio, quando aveva iniziato a dare i primi segni di squilibrio. La trovavamo particolarmente compatibile con la tua.

- Maledetti. Bastardi. Perché mi avete fatto questo?

- Fa parte della nuova prassi d'addestramento. Ordini del comando: pare che la controffensiva non proceda secondo i piani, e dunque dobbiamo sperimentare nuove tecniche. Esercitazioni avanzate: più efficaci della vita virtuale. E tu hai risposto molto bene alla sollecitazione, per essere un clone.

Ada annuì con cupa amarezza.

- Già, ho reagito bene... e adesso, che mi rimane? Ve lo siete chiesti, questo?

- Non capisco il problema. Quando sarai congedata con onore, (e ciò avverrà fra breve, te l'assicuro) potrai permetterti ben altro che un'elaborazione computerizzata. Noi stiamo solo cercando di far sì che ogni Monoguerra dia il massimo. Noi dobbiamo solo aiutarvi a resistere. L'interesse supremo dell'umanità, la definitiva sconfitta degli invasori, è il proposito che ci anima e muove ogni nostra azione. E' irragionevole il tuo risentirti...

- Che l'inferno vi inghiotta tutti. Che i Tessitori vi mangino in insalata, e trasformino questa galassia in una collezione di minerali. Sai quanto me ne importa! Stai zitto, brutto ammasso di circuiti untuosi, schifosa ipocrita strega, disgustosa puttana di merda...

La voce di Ada si era fatta stridula. Per una volta, il Sergente prudentemente tacque e non le rammentò il regolamento né minacciò punizioni, ma si ritirò in buon ordine.

Un esperimento. Nient'altro che un semplice esperimento. Per questo l'avevano creata. A chi interessavano i suoi sentimenti? In fondo non era mai uscita da quel famoso laboratorio.

Le sonde si stavano avvicinando, zelanti e sollecite, per ripristinare l'equilibrio metabolico e somministrare anestetici. Soprattutto far cessare quell'inutile perdita di liquidi salati...

- Oh piantatela - bofonchiò Ada, con voce impastata, tentando, debolmente quanto inutilmente, di scacciarle - per una volta, almeno una volta, lasciatemi piangere in pace...

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