di

Livio Horrakh

Dove muore l'astragalo

I racconti più famosi degli scrittori americani, lo sappiamo, vengono di continuo ristampati, raccolti in antologie che li mantengono vivi, che li fanno conoscere ai nuovi lettori. Ma dove finiscono tutti quei racconti bellissimi, quei piccoli gioielli prodotti dalla fantascienza italiana? Qualcuno, ma sono casi rarissimi, ogni tanto ricompare su qualche antologia. Per lo più spariscono, e vengono dimenticati. Noi vorremmo fare qualcosa per opporci a questa condanna, e cercheremo di pubblicare, dove sarà possibile, i grandi racconti della fantascienza italiana. Quello che vi presentiamo questo mese è uno stupendo racconto di viaggi, che richiama i sapori insieme di Kerouac e di Ballard, pubblicato per la prima volta su "Galassia" e che vinse il Premio Italia per il miglior racconto nella prima edizione di questo premio, all'Eurocon di Trieste del 1972. Negli anni Settanta Trieste ha dato tantissimo alla fantascienza italiana, e triestino è l'autore di questo racconto, Livio Horrakh. Leggerete altro di suo prossimamente su queste pagine. (Silvio Sosio)

martedì, 5 agosto

Non c'è posto, sul treno. Appoggio il sacco a terra e mi ci siedo sopra. La vettura è piena di slavi fuggiti dalla Francia; vengono da Parigi, Lione, Bordeaux. Vogliono vedere il loro paese ancora una volta, prima di morire. Fa un caldo da crepare, ogni giomo più caldo. Per fortuna scendo a Lubiana. Mira viene da Bordighera, ha una gran voglia di raccontare i fatti suoi, ma io spero soltanto che qualche merlo se la fili al gabinetto, così gli frego il posto. Ancora tre ore di viaggio. Una stazioncina, qualcuno sul muro ha scritto: 'il Vento ha raggiunto la Spagna. MALEDETTI'. Hnan è uno del Sudan. Me lo dice lui. Scalo a Lubiana anche per l'amico. Forse faremo l'autostop assieme fino a Belgrado. Deviazione quindi per la Bulgaria. Intanto beviamo. Birra calda. Offre Stane, nato a Nîs trentacinque anni fa, ora cittadino del mondo. Le bottiglie di birra francese fanno rapidamente il giro e volano dal finestrino vuote. Credo di essere un po' ubriaco. Hnan è stanco. Parigi Ovest-Trieste tutto il tragitto in piedi. Si stende in mezzo al corridoio. Nessuno gli bada. A Borovnica lo slavo sparisce. Scende dal treno ma tutta la sua roba rimane su. Si riparte lentamente.

Alle ventitré e quarantacinque siamo a Lubiana. Spero mi daranno da dormire, all'indirizzo che Giovanni mi ha indicato. Decidiamo con Hnan di ritrovarci l'indomani (è già oggi) qui, alla stazione, per andare a Belgrado assieme. Dormirà su un panchetto avvolto in un telo impermeabile. Adesso fa freddo. Per strada neanche un cane. Trovo presto la via e la casa. Dormo male. Accendo la lampada e ricomincio a leggere, forse per la centesima volta, The last beach. Voglio riempirmi gli occhi del mondo, di ciò che ne resta, e non pensare più a niente. Fino a che ne avrò il tempo.

mercoledì, 6 agosto

Non aspettiamo molto. Verso le sette ci imbarcano degli olandesi su di una Zodiac gialla. Hanno perso tutto. L'Aja viene inghiottita giorno per giorno da un mare schiumoso e avvelenato. Io ho mal di stomaco. Non so se questo sia già l'inizio. Mucche pezzate e scheletriche, deserti di girasoli. Zagabria. Comperiamo del pane e formaggio e due bottiglie di latte. Mangiamo in fretta perché gli amici vogliono ripartire. Campi di granoturco e biciclette abbandonate. Alla sera arriviamo a Belgrado. In un albergo miracolosamente ancora in piedi troviamo francesi, spagnoli, italiani, portoghesi, tedeschi. C'è anche una ragazza inglese che mi sembra di aver visto da qualche parte sulla strada, durante il tragitto da Zagabria a Belgrado. Si chiama Annabel. Gregory è americano. L'America non esiste più. O meglio, la gente che ci viveva, gli animali, le piante, son tutti morti. Lui e la sua ragazza, una bionda insignificante, si trovavano in Europa quando scoppiò la guerra? Anche loro fuggono, come tutti. A oriente. Tirano fuori una bottiglia di whisky di pessima marca. Hnan ci parla di quello che era il suo paese. Alle porte della città si sono accampati con tende e bagagli dei giovani cecoslovacchi. Decido che mi conviene passare per la Grecia Libera, altrimenti il viaggio sarebbe troppo lungo. Il visto per la Bulgaria costa otto yuan. Sedici, diciassette ore risparmiate.

giovedì, 7 agosto

Sto di nuovo male. Non capisco se faccia freddo o caldo. Camminiamo, giù, fino alla vecchia autostrada. Ci sediamo sul ciglio spoglio. Il sole è ancora basso. La prima colazione consiste in qualche sorso d'acqua gelata dalla mia borraccia e due grosse fette di pane di riso. Volti rassegnati passano davanti a noi. Un ragazzino figlio di contadini ci vuol vendere delle foglie di betel. Cerchiamo di fargli intendere, a gesti, che preferiremmo della ricotta, se ne fanno ancora.

Sono già le dieci del mattino. Passano soltanto le autoblinde. Le undici. Andiamo alla stazione delle corriere e chiediamo se c'è un bus per Sofia. Ci rispondono che di lì a poco parte un'autovettura per Nîs, con del plasma. Comperiamo in fretta e furia un po' di frutta, due filoni di pane e urla piccola forma di salame di cane. Riempiamo le borracce d'acqua e montiamo. Sono tutti soldati sulla corriera. Ci guardano, un po' incuriositi. Tiro fuori la carta della Yugoslavia, la spiego sulle ginocchia e quelli si avvicinano. Ci chiedono dove andiamo. Fanno grandi gesti con le mani quando sentono che vado a Istanbul. Ci offrono da fumare. Svilajna. Paracin.

Interminabili paesaggi di noci fioriti. E' oramai sera. Arriviamo a Nîs che sono le undici. Non sappiamo se vi sono degli alberghi o degli ostelli, ma anche se ve ne sono, oramai sono chiusi. Giriamo un po', finché troviamo un contadino che per uno yuan è disposto a farci dormire in una stanzetta del suo cascinale. Nel prezzo del pernottamento è compresa anche la sveglia del mattino, gli facciamo capire. Ci porta su una brocca d'acqua gelata e due fette di pane fatto in casa. Gli chiediamo se ci può vendere un po' di formaggio e una bottiglia di slivovjtz. Ce la caviamo con mezzo yuan. I letti puzzano di vomito. Ci sdraiamo per terra maledicendo quelli che ci hanno preceduto.

venerdì, 8 agosto

Al mattino di buon'ora siamo sulla strada. Una coppia di olandesi ci dà un passaggio fino a Pirot. Al volo prendiamo una corriera che va fino a Sofia. Sono circa cento chilometri. Arriviamo al confine verso le nove e quarantacinque. Alla dogana campeggia il manifesto di Mao Tse Tung, enorme. C'è un treno merci che va da Sofia a Haskovo. Parte alle undici e arriva alle diciannove. Credo che lo prenderò: in Bulgaria è pressoché impossibile fare l'autostop. Soldati cinesi dappertutto. C'è un violento contrasto tra il paesaggio buglaro, che esplode letteralmente in boschi di fiori da mutazione stupendi, e la gente. Così silenziosa e triste. Fabbriche, ciminiere, officine a un livello semi-artigianale spuntano qua e là. Fra due mesi non imbratteranno più questo cielo terso e scolorato. Grecia Libera. Trenta chilometri di una landa desolata e irriconoscibile. Di nuovo Bulgaria. Sofia. Hnan se ne va. Giorno per giorno ti ritrovi sempre più solo.

Poca gente per le strade. Gatti e uccelli morti. Suona una marcia militare da qualche parte. Qualcuno grida, da una casa. Graffiata su un portone una scritta in inglese dice: "qui ho fatto all'amore per l'ultima volta con Mary Jane". Alla stazione salto su un vagone del merci, non c'è nessuno in giro. Sono tre notti che dormo poco o niente. Sulla paglia chiazze di sangue. Un carro bestiame che non ha più neppure una vacca da poter trasportare. Sbuffi di vapore. Ci muoviamo.

Fra detriti di montagne la locomotiva rossa arranca faticosamente. Siamo in ritardo. Vomito ancora. Sono felice di vivere, non importa per quanto. Arriviamo ad Hakovo alle nove.

Metto il sacco sotto la testa e mi addormento su una panca di legno della stazione.

sabato, 9 agosto

Conosco dei tedeschi che vanno fino a Corlu, centosettanta chilometri da Stambul. Faccio il primo pranzo completo, se questo si può chiamare pranzo, dall'inizio del viaggio. Partiamo alle due. E' violento nella sua bellezza malefica il paesaggio bulgaro, piatto di una monotonia esasperante quello turco. A Corlu siamo alle venti. Un campo di concentramento. Alle ventidue c'è una tradotta per Stambul. Un'ora e venti minuti di viaggio. Carnpi di mais avvelenato a perdita d'occhio. Squarcio improvviso del Bosforo illuminato dalle cento e cento luci dei battelli che fanno la spola senza alcuna interruzione fra Europa ed Asia. Inutile fuggire. Eppure anch'io spero ancora. Scioccamente.

Sono finalmente arrivato. Per un momento dimentico tutto, la stanchezza, la malinconia, i disagi del viaggio. C'è un'intera città da scoprire, la capitale provvisoria delle Repubbliche Popolari Medio-Orientali, Istanbul. Mi addormento di colpo, appena giunto nella stanza di un albergo che ho trovato a poche centinaia di metri dalla stazione.

domenica, 10 agosto

Il sole splende. Dormo fino alle undici del mattino. Al pomeriggio mi rimetto in marcia, alla ricerca di un ostello. Istanbul, o Stambul come lo chiamano qui, a girare per le sue strade ti dà un senso di vertigine e di smarrimento. Gente come formiche. Ventidue milioni di persone che muoiono di fame, più di tre quarti della popolazione di ciò che resta degli Stati Uniti d'Europa sono concentrati in questo meraviglioso ghetto. Un alveare d'emozioni. Sono sballottato a destra e a sinistra nella ricerca vana di un indirizzo che non esiste. Arrivo a raccapezzarmi, infine. L'ostello si trova a Florja, un sobborgo di Stambul, settanta chilometri dalla città. Prendo un autobus che mi porta fino sulla spiaggia del Mar Nero, Florja appunto, un tempo una delle più belle spiagge dei mondo, dicono.

L'ostello si apre alle diciotto. Compero dello yogurt turco, acido e ghiacciato, un cartoccio di mandorle canditissime ed arachidi pepate e un pacchetto di trinciato turco per sigarette, quello buono. Un prato di cardi in fiore è l'assaggio di quello che sarà in seguito il letto dell'ostello. L'ostello è semivuoto. C'è un pakistano, due francesi partono l'indomani. Anche uno spagnolo, si chiama Domingo. The Last Beach.

lunedì, 11 agosto

In giro per i bazar. Compero un flauto indiano. Ce ne andiamo al Misir Carsisi. Stupefacenti di tutti i generi, per tutti i gusti.

Per vedere la città dall'alto non c'è che un mezzo: arrampicarsi sulle rovine d'acciaio e cemento dell'Hilton Hotel. Inondati dal sole si stendono nella grande distesa bluastra i tre vastissimi formicai umani separati tra loro dal Bosforo e dal corno d'oro. Spingo lo sguardo più in là: sul promontorio tra il Corno d'Oro e il Mar di Marmara giace Stambul, la parte più antica della città. Ad est, sull'altro promontorio tra il Corno d'Oro ed il Bosforo, si protendono Pera e Galata, con il suo ponte inabissato nel mare, a formare Beyglu, l'aggregato moderno di Istanbul. Non so per chi scrivere tutto questo.

Domani lo spagnolo ed io andremo via dall'ostello. E' troppo distante dalla città, dal cuore di Stambul. Traversiamo Galata Bridge: la scheggia del ponte che affiora dalle acque. Pescano per mangiare qualcosa, centinaia di lenze gettate dai pilastri nell'oblio.

Ancora una moschea, la Moschea delle Rose, ed è già sera. I capelli lunghi spuntano da ogni piazza di Istanbul, da ogni prato ove si sono annidati. Ci uniamo ad una compagnia di variopinti hippies sedendoci assieme a loro sul selciato di terra battuta che circonda l'Eski Imaret Kami. Suono come posso la mia armonica. Loro cantano con le chitarre di sogni impossibili.

Stambul s'accende di luci che si perdono sullo stretto del Bosforo. Baracche, rifugi antiatomici, ville meravigliose, il ghetto, la povertà più disperata e la fame sgretolano ora per ora quest'ultimo baluardo della civiltà occidentale Nessuno piange sulle ceneri radioattive. Il domani è nelle mani di Allah.

Ritorniamo a Florja a bordo di un camion. Ravi, il pakistano, partirà con noi per Baghdad Nuova mercoledì tredici con il Treno dell'Est.

martedì, 12 agosto

Ce ne andiamo. Appuntamento con Ravi per mercoledì, alla stazione est, quella sull'altro lato del Bosforo. C'è gente che muore, per le strade. Indifferenza. Fissiamo una stanza nei paraggi della Blue Mosque. Siamo letteralmente presi dall'incanto che si sprigiona da questo monumento, testimone di un mondo che sta crollando lentamente e che pure a tratti si accende di bagliori sovrumani. I sei minareti si stagliano netti nel cielo terso dell'Ahmet Cami. Entriamo. Le pareti rivestite di maioliche blu e la cupola dipinta nel medesimo colore riempiono i nostri occhi di orizzonti sconfinati. Domingo sta piangendo. Uomini e bambini dormono sul pavimento. Ci avviciniamo al pulpito per la preghiera e scorgiamo in una nicchia di marmo bianco un frammento della pietra nera della Saaba della Mecca. Ci accoccoliamo sui tappeti rosi dal tempo e dall'avidità di conoscenza del viaggiatore e meditiamo. Fantastico sull'origine misteriosa ed arcana di quella roccia che proviene da altri spazi e da altri eoni.

Un turco ci chiede se noi preghiamo Dio nelle nostre chiese. Dio è morto, gli rispondiamo, il 3 giugno 1978.

Sono le tredici. Fitte atroci allo stomaco. Ci infiliamo in una minuscola mensa popolare nel quartiere di Sirkeei. Ci servono dopo più di un'ora. Al suono di un Cantalari Keman conosciamo il dispensatore del paradiso. E' questo ora il suo nome ufficiale, ad Istanbul come altrove. Saliamo le ripide Scale di un dormitorio. In una stanzetta disadorna si vende il Cielo di Allah. Comperiamo per tre yuan turche. L'Angelo del Misericordioso mi farà dimenticare per qualche attimo la maledizione che mi rode dentro. Scoprirò più tardi che la marijuana è di pessima qualità ed è già stata tagliata con del trinciato. Facciamo a metà.

Ricominciamo a vagabondare, senza una meta. Il sole sta calando. Sarà questa l'ultima volta?

Prendiamo il traghetto per traversare il Bosforo. Non mi fa nessun effetto particolare il fatto di trovarmi in Asia. Ma del resto cosa dovrei provare? Questa parte della città mi sembra più ostile. Ci guardano con derisione, con disprezzo. Un bazar. Vendo la mia macchina fotografica e l'orologio. Comperiamo delle provviste per il viaggio al mercato nero. Sarà un tragitto lungo e pesante, più di quattro giorni. Tutti su un treno merci, probabilmente.

Riattraversiamo lo stretto. Sirene e fari tagliano i blocchi azzurri di un mare che si precipita in ondate violente contro i bordi della nave. Limpido e terso come questo cielo radioattivo che si scolora nelle mille notti di Ahmet il Magnifico.

Quartieri popolosi. Uomini butterati e bimbi tormentati dalla lebbra. Gatti scuoiati appesi alle persiane delle case per chi ha abbastanza yuan da comprarli. Tutta la citta è ammalata, infetta. Un bazar gigantesco che si dibatte nella morsa di una lenta agonia.

Vivere è oramai un mestiere. Ho conosciuto gli spacciatori di droga, i venditori di incantesimi, gli indovini ambulanti, i protettori di ragazzine dodicenni e di omosessuali, gli scrivani pubblici all'angolo delle strade, gli impresari di spettacoli osceni improvvisati, i suicidi a pagamento.

Alla mensa ceniamo in fretta. Sono le ventidue circa. Ritroviamo nel quartiere di Haseki gli hippies del giorno innanzi. Giriamo un po' e rintracciamo alla luce dei lampioni il giardino della moschea di Bayazit. Ci sediamo sull'erba a respirare la notte e il profumo del mar di Marmara che giunge fino a noi portato da una brezza improvvisa, dolce e mortale.

Istanbul di notte è differente. Ogni notte cade la pioggia radioattiva. Strade deserte. I pochi passanti camminano in fretta, ognuno desidera tornare a casa sua, se ha una casa.

Il Corno d'Oro, spezzato irrimediabilmente. Comperiamo del pesce appena fritto da un barcone. Non ha il sapore del pesce, ma un gusto strano che sa di cieli lontani e di erbe sconosciute. Pescano il balik nello stretto, lo cucinano sulla stessa cayik, lo salano e lo vendono ai passanti dopo averlo passato in uno straccio inzuppato di droga.

Ritorniamo nella nostra stanza. Una minuscola soffitta puzzolente e calda. Aspiro delle boccate lente e profonde. I polmoni cominciano a bruciare. Non è questo il mio mondo.

mercoledì, 13 agosto

Traversiamo nuovamente il Bosforo. Ma questa volta non si torna indietro. Sto un po' meglio oggi. Ravi ci ha preceduto alla stazione. Il treno merci va fino a Nusaybim, al confine fra la Siria e l'Iraq.

Di vagone in vagone alla ricerca di un po' di posto. Arabi e turchi pigiati tra montagne di pacchi e valigie. Sistemiamo i nostri sacchi e scendiamo. Comperiamo del pane e dell'acqua per riempire le borracce. L'acqua potabile si compra, oramai. Ravi deve spostare la sua roba su di un altro carro, che devia per Tubriz. Salgono due francesi. Vanno fino a Bassora. Poi Calcutta. Scopriamo di aver abitato nella stessa topaia ad Istanbul senza esserci mai incontrati. Il treno parte.

Usküdar. Ad Izmit dopo due ore di viaggio. A Bilecyc divampa un incendio. La gente, terrorizzata, fugge verso le campagne. Ad Eskisheir il merci si ferma per tre quarti d'ora. Decidiamo cosa faremo una volta arrivati a Baghdad, se mai ci arriveremo. Kabul è lontana. Forse non esiste più.

Ankara non è che un villaggio. Sul versante sud-orientale di una vasta conca scavata da un fiume giallo e putrido crescono abbarbicate poche casupole. Il Sakarya scorre verso il suo nuovo estuario termonucleare gonfio di carcasse d'animali.

Kaiseri. Scende la sera. La Via Lattea è meravigliosa. Il cielo si curva, e le ultime stelle sembrano toccare il suolo. La nostalgia di mondi mai visti e che mai nessuno vedrà bagna il mio volto. Freddo. Di nuovo fitte atroci allo stomaco. Mi sdraio per terra, come gli altri.

giovedì, 14 agosto

L'alba svanisce nella steppa fiorita di cardi, dell'artemisio e dell'astragalo. A tratti appaiono rade boscaglie di pioppi violetti, di salici giganteschi, di gelsi selvatici. Lungo i corsi d'acqua crescono rossi fiori carnivori e quando il treno si stende attraverso sprazzi di conche verdeggianti sbocciano i fiori degli albicocchi. Spuntano fra rododendri mostruosi, fra i meli spogli e i bassi vigneti.

Kirikkale appare improvvisa. Volti stanchi, smagriti, rosi dalla fame e dalla disperazione. Perché prolungare questa agonia? Comperiamo quattro focacce. L'acqua nelle borracce è oramai calda.

I primi cadir. Sono le tende rettangolari di tipo arabo che i nomadi dell'universo si portano dietro su muli e cavalli, fuggendo lungo una pista che va da nord-ovest a sud-est. Da qui fino ai confini del mondo, dove il sole si spegne nell'Oceano Cinese, la Città è morta. Enormi cimiteri di acciaio e cemento, tentacoli di conurbamenti urbani abbandonati alla pioggia atomica, al vento, al deserto. L'uomo se n'è andato, per sempre. Soltanto pazzi, scarafaggi, poeti e governanti ci vivono ancora. Gli altri, i fuggiaschi, vanno ad oriente, su carri trainati da bestie e da altri uomini, fermandosi di tanto in tanto nei villaggi dalle capanne circolari fatte di arbusti. Per poi ripartire. Con i treni merci, sui camion che trasportano medicinali e viveri, a piedi. Due mesi ancora e poi sarà tutto finito.

Mi addormento col sole negli occhi. Trentasei gradi. Quaranta. Una ragazza araba mi sorride. Non c'è più tempo per odiarsi. Dividiamo il nostro pane con gli altri. Cercano di farsi capire. Mostrano qualcosa con le mani. Due soldati cinesi ci offrono da fumare. Coltivano la poca terra fertile ancora rimasta nei campi di Ankara e si spostano col treno per andare da una comune all'altra.

Ulkisla. Lo spagnolo sta male. Non posso aiutarlo. Nessuno ci può aiutare.

E' già un'altra sera. La mia casa, la mia gente, i sogni fatti nelle notti d'estate non sono più che un'illusione. La sola realtà è lo sferragliare di questo merci che va verso il nulla.

Giungiamo ad Adana alle tre del mattino. Sono ancora sveglio.

venerdì, 15 agosto

Costeggeremo la Siria per più di ottocento chilometri. Kilis. Poi Barak. Ad Akcacale il merci si ferma per più di due ore.

Karkamis. Presto le quattordici. Siamo silenziosi.

Attraversiamo l'Eufrate. Sulla strada, parallelamente al treno, corrono gli autocarri, stracarichi di gente e di masserizie.

Alle venti arriviamo a Nusaybim. Tre chilometri al confine con la Siria. Scendiamo. Non si può proseguire. Occorre un permesso speciale. Al posto di blocco siriano ci daranno un foglio di via. Ma per dove?

L'universo impazzisce nella mia testa, sono certo si curva in qualche fogna di questo pianeta agonizzante.

Poi verrà il deserto. Dovremo traversare quattrocento chilometri del Tall Kochak con qualche mezzo di fortuna, per raggiungere Mossul. Altrimenti saremo costretti a ritornare allo scalo di Nusaybim ed aspettare. Aspettare forse sino alla fine l'arrivo del prossimo convoglio diretto ad Al Mawsk.

Ci fanno scaricare in fretta e furia tutta la nostra roba. Il pesante locomotore si rimette in moto.

E' notte. Qualche casa abbandonata. Una fontana. Un gruppo di pioppi. Una moschea col suo minareto. Seduti in semi cerchio sulla steppa gli ultimi fuggiaschi cantano una triste canzone alle galassie lontane.

Edifici militari, casematte. Fortificazioni. Rifugi antiatomici, postazioni antimissile. Soltanto il vento risponde ai nostri passi. Torniamo indietro. Alla stazione ci buttiamo sulle panche di legno senza pensare più a niente. Cade la pioggia. Trafigge la terra malata come la punta di uno spillo, tanti spilli grigi, uno accanto all'altro. Viene giù diritta, cola dai cornicioni della stazione martellando sulla lamiera contorta e arrugginita di una palizzata.

sabato, 16 agosto

Al mattino ci sveglia il fischio di una locomotiva. Zaino in spalla imbocchiamo la strada polverosa che porta al posto di blocco. Arriviamo dopo un'ora di cammino. Sette, otto cavalli di frisia, una casupola con un minuscolo ufficio, una bandiera stracciata. Tutt'intorno un pianoro color caffelatte. Nessuna capanna, neppure una strada. Qualche filo d'erba cresce qua e là. Sono le sette.

Ci imbarcano su un camion militare che va dalle parti di Mossul. Dopo venti minuti arriviamo al confine iraqueno. Ripartiamo.

E' il deserto di Tall Kochak. Quattrocento chilometri di una landa spoglia e radioattiva. Buche, sabbia, declivi e piane improvvise. Caldo opprimente, un'afa che preannuncia una violenta burrasca.

Lontano dei soldati cinesi drizzano una tenda. Il deserto si snoda zigzagando tra le dune rose dal vento. In lontananza scorgiamo le prime case vuote e diroccate di Mossul.

Fa caldo, molto caldo ora. Vomito. Per le strade qualche cane scheletrico. Non c'è più nessuno. Ci sediamo per terra all'ombra di un grande porticato. Quattro tavoli, una fontana a cisterna. Avvoltoi intrecciano complicati ghirigori in un cielo slavato e inutile.

In una botteguccia abbandonata troviamo ancora della farina di granoturco e dell'olio. A chi serviranno mai? Soltanto l'erba bruciata nel silenzio della notte riesce a placare per qualche attimo la sconfinata tristezza.

Sulla strada per Ash Shura. Jean-Claude sta male. Ha il volto e il resto del corpo coperti da chiazze rosse. Non ce la fa più a camminare. Allora è davvero finita. Nel giro di qualche giorno comincerà anche per noi. L'idea della morte mi lascia indifferente. Correrò ancora lungo i sentieri di questa terra finché non scenderà la sera e gli ultimi uccelli se ne saranno andati altrove.

Trasciniamo a braccia il nostro compagno. Dopo due ore ci carica un camionista. Ash Shura. Un villaggio. Scendiamo. Piove, ed un altro uomo sta morendo. Scaviamo una fossa al limitare di una radura fiorita, ad est, dove nasce il sole.

Camminiamo sotto la sferza del vento. Crepe e burroni si aprono nel bassopiano dove un tempo sorgeva Samarra. Insetti da mutazione si trascinano agonizzanti fra le rocce.

Un treno rnerci fermo su una serpentina arrugginita di rotaie. Arabi e cinesi. Qualche europeo. Un ragazzo indiano suona su una chitarra una vecchia canzone. Qualcuno piange. Sferraglia la vecchia locomotiva. Ci muoviamo verso Baghdad.

domenica, 17 agosto

Marcite maleodoranti a perdifiato. Carcasse di cammelli. Alle dieci arriviamo allo scalo di Nuova Baghdad. Cinquantadue gradi all'ombra. Le strade sono deserte. Negozi saccheggiati o distrutti dallo straripamento del Tigri. Sporcizia e topi morti dappertutto. Traversiamo il ponte gettato tra le due sponde del fiume. Scendiamo fin sotto l'arcata dove il greto è ancora asciutto. Lo spagnolo se ne va. Fugge verso qualche altro sogno.

Con i sacchi in spalla camminiamo su una diritta strada suburbana, bruciata dal silenzio e dalla morte. Ciminiere vuote sovrastano come imponenti cattedrali senza fondamenta ed il cemento si sgretola lentamente.

Abbiamo ancora un po' di pane. Seguiamo una mulattiera che porta ad Al Mussayb. Vomito. Ci stendiamo al riparo di un autobus squarciato da qualche bomba.

lunedì, 18 agosto

Ci rimettiamo in marcia. E' l'alba. A mezzogiorno arriviamo a Babilonia. Degli egiziani e una donna siriana stanno cuocendo dei serpenti. Il sole batte implacabile sulle nostre teste. Camminiamo su questa terra arsa da migliaia di anni senza parlare. Colli e declivi. Dall'alto di un colle scorgiamo sotto di noi una distesa sconfinata di rovine, di mura ancora intatte, di pietre che scendono a lambire la riva destra dell'Eufrate. Caldo. Ci sediamo a bere dalla borraccia.

Le mie mani, il mio volto sono in fiamme. Non riesco più a stare in piedi. Il mio compagno mi trascina giù per una discesa, ai piedi di un immenso e misterioso monumento eretto in nome di un dio sconosciuto.

E-sag-ila, io non...

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