racconto di

Antonio Piras

Una rotta per Asintote

Eccoci alla pubblicazione del racconto classificatosi al secondo posto nell'ultima edizione del Premio Lovecraft per la narrativa del fantastico. Il suo autore non è certo una scoperta per gli organizzatori del premio, in quanto si era già aggiudicato la prima edizione dell'Alien, ma questo racconto è l'ennesima conferma, per quanto ce ne fosse bisogno, delle qualità di Antonio. Io personalmente lo ritengo uno dei nostri migliori autori del fantastico, soprattutto quando imbastisce storie esotiche e magicamente affascinanti come quella che pubblichiamo qui di seguito. Antonio ha recentemente pubblicato una sua antologia personale di racconti presso le Edizioni Il cerchio (Sette ossi di rana), e so che sta lavorando su un romanzo di fantascienza. Mi auguro di poterlo leggere al più presto. (Franco Forte)

Tutto è pieno di segni, ed è sapiente chi da una cosa ne conosce un'altra.

(Plotino, Enneadi, tratt. III, cap. 7)

La torre dell'Osservatorio si erge sul tetto di poppa dell'arca-città come un fungo panciuto e precario; da qui, dall'alto del settimo livello, l'oceano sembra lontano, riesco persino a illudermi di poter prescindere dal suo abbraccio umido. Ed è una sera di calma quasi piatta, carezzata da una bava di vento che non trasporta visioni di orrendi pesci-monaco, Kraken smisurati, Architeutis tentacolari o balene-isola. E' una sera senza mostri.

Cirrus, il vecchio Avvertitore, giace esanime sullo scanno di roverella, il suo corpo ossuto è piegato secondo angoli innaturali, acute sporgenze che la tunica leggera non riesce a mitigare. Cinque Governatori del Consiglio circondano lo scanno. Due di loro discutono in modo concitato, i volti tirati dalla preoccupazione; i mantelli blu cobalto e i piccoli delfini tatuati sopra le tempie li qualificano come Ammiragli Anziani. Gli altri, i tre in perizoma con tatuaggi differenziati su toraci e bicipiti, sono Capitani di varia levatura, e si limitano a fissare il cadavere di Cirrus con occhi vacui; i loro pensieri sembrano barcollare lungo il confine estremo che li separa da un fatale attacco d'ansia. E questo mi preoccupa. Il momento è critico, me ne rendo conto, la morte improvvisa di Cirrus ha privato Asìntote dell'unico Avvertitore qualificato, e un maremoto improvviso potrebbe sorprendere l'arca-città, investirla proditoriamente con la sua furia distruttiva. L'emergenza, però, non giustifica l'atteggiamento dei membri del Consiglio: ho sempre pensato che i Governatori non potessero soggiacere all'insidia della sindrome ansiosa, il terribile male che, con perniciosa progressività, spappola le menti del popolo del mare; ho sempre creduto che il pericolo di cedimenti psichici non dovesse riguardarli. Possibile che i Governatori, proprio loro, non conoscano le tecniche atarassiche che il vecchio Cirrus insegnava a noi allievi?

Helada m'indirizza, di sottecchi, uno sguardo significativo, per invitarmi a osservare Haze. Lo faccio. Se ne sta in disparte, appoggiato alle assi della parete, rigido come un bompresso di prora; appare più piccolo e smunto del solito, suda copiosamente, e le pupille dilatate denunciano il timor panico che sta divorando le sue circonvoluzioni. La mia preoccupazione aumenta: Haze è sempre stato l'allievo migliore, e anche se Cirrus non ne aveva ancora ufficializzato l'investitura, il più adatto a ereditarne il ruolo. E adesso scopriamo che il vecchio lo aveva sopravvalutato, tutti noi lo avevamo fatto: di fronte alla prima, seria criticità, Haze ha dimenticato ogni insegnamento, tutti i giochi mentali per ottenere lucidità e controllo, e il suo cervello sconvolto vaga fra i labirinti ovattati costruiti per lui da un poderoso attacco d'ansia. E pensare che questa è una sera tranquilla, di calma quasi piatta. Una sera senza mostri.

Spingo lontano lo sguardo, fino alla tavola luccicante dell'oceano, e l'oceano mi restituisce uno squarcio di ricordo.

Cirrus siede nello scanno di roverella, severo ma rilassato. Il suo volto prosciugato dalla salsedine, scuro e rugoso come una prugna secca, ondeggia impercettibilmente, inseguendo complicati pensieri segreti, e gli occhi velati di umore, quasi ciechi, scrutano con seriosa ostinazione prima Helada, poi Haze, e infine me. Quando il sensitivo si decide a parlare, la fessura della bocca si torce in una linea dolorosa. - Avanti, Haze! - esorta con voce arrochita. - Concentrati sulla porzione di mondo che circonda l'arca: penetrala e poi descrivila.

Helada e io ci scambiamo un'occhiata complice, e lei serra con forza le labbra per reprimere un ghigno. No, non intendiamo mancare di rispetto al nostro compagno, ma sappiamo che Haze si esprimerà in modo eccessivamente forbito, così come fa sempre quando Cirrus sollecita il suo intervento. Haze sa di essere l'allievo predestinato, e non intende rendersi protagonista di una figuraccia. Non lo sopporterebbe.

- Khamsin, Helada, cercate di restare seri per una volta! - Il rimprovero di Cirrus gela la nostra ilarità. Dimentico sempre che il sensitivo non ha bisogno di occhi: riesce a leggere nelle anime con la stessa facilità con cui registra in anticipo l'avvicinarsi di un maremoto.

Haze risparmia Helada, e trapassa me con gli occhi piccoli, affilati come rasoi. Distolgo lo sguardo e fingo improvviso interesse per l'orizzonte lontano. Lui china il capo e si concentra sul gioco che condurrà la sua mente alla quiete, permettendole di entrare in sintonia con l'oceano.

- Estraggo, da un mazzo di 52 carte, un Asso, un Due, un Tre e un Quattro, e questo senza preoccuparmi dei colori - enuncia in un bisbiglio, e controlla mnemonicamente la distribuzione, così come la tecnica richiede. - Le dispongo al centro del tavolo, a faccia visibile e con i lati che si toccano, in modo che l'Asso figuri nell'angolo superiore sinistro, il Due alla sua destra, il Tre al di sotto del Due, e il Quattro sotto l'Asso. Il tavolo è costituito. Intorno alle quattro centrali aggiungo dodici carte supplementari, a faccia visibile, come un quadro intorno al tavolo.

Riconosco il gioco: Haze non si è smentito, per concentrarsi ha scelto "La Torre di Babele", uno dei solitari più complicati da sviluppare a memoria, senza l'uso delle carte. Il gioco consiste nel costruire una torre, al centro, dopo aver liberato le quattro carte del tavolo; quando il quadro scompare, e la cinquantaduesima carta raggiunge la cima della Torre, il gioco di pazienza può considerarsi riuscito.

- Mnemopesca casuale e sviluppo - dichiara Haze, e inizia a muovere le carte con la mente. Ha smesso di bisbigliare, ma dal leggero tremolio delle labbra si capisce che le combinazioni s'inseguono veloci. E lui ricorda ogni passaggio, tutte le sequenze. Quando rialza la testa, ha concluso il gioco, ha collocato virtualmente la cinquantaduesima carta, e la sua mente è quieta, già collegata all'essenza oceanica.

- Il pelo dell'acqua asseconda estese convessità effimere - dice. Il commento è sicuro, e la voce è profonda, sembra provenire da inarrivabili abissi. Ha soltanto quindici anni, come me e Helada, ma il suo rapporto con il mare presenta già tracce di eccezionale compenetrazione simbiotica. E a dispetto del corpo esile vanta, al nostro confronto, una maturità da fratello maggiore. No, non c'è dubbio: il nostro compagno di lezioni diventerà il nuovo Avvertitore, e rileverà il vecchio Cirrus, quando lui non sarà più in grado di prevedere con puntualità i maremoti, suggerire per tempo le rotte, e guidare l'arca-città che ci trasporta in acque sicure.

Al commento Haze ha fatto seguire una pausa, durante la quale ha sondato la propria mente alla ricerca di altre immagini. Adesso è pronto a completare la visione. - L'oceano culla Asìntote fra i declivi pacati che circoscrivono le dune liquide - recita, in un'inflessione priva di enfasi.

Le voci alterate degli Ammiragli Anziani interrompono i ricordi e richiudono lo squarcio.

- Potremmo riparare in una cala, sostare nelle vicinanze di una piattaforma di pazziterricoli e là attendere un'arca-città per reclutare un rincalzo all'altezza - suggerisce uno dei Capitani, ed è una proposta dettata chiaramente dalla disperazione, perché sa benissimo che la soluzione prospettata non risolverebbe il problema: un ancoraggio in una cala o in una baia coperta non proteggerebbe l'arca-città e la sua popolazione da un maremoto violento, e nemmeno da un sisma di terra con epicentro prossimo alla costa. Tanto più che, da qualche tempo, circolano voci allarmanti: sembra che terremoti ed eruzioni vulcaniche abbiano assunto frequenza giornaliera, la stessa che quasi un secolo fa convinse la maggioranza degli abitanti del pianeta a trasferirsi sul mare, e che i variometri dei pazziterricoli stiano registrando terrificanti picchi di magnitudo nelle turbolenze del campo geomagnetico. No, quello che occorre è un nuovo Avvertitore. Subito. O non ci sarà salvezza per Asìntote.

Asìntote è il nome dell'arca-città che ci trasporta, uno scafo di tremila teu che in condizioni ottimali può raggiungere anche una velocità di sei nodi, ed è un nome che non mi piace, non mi piace più da quando ne ho scoperto il significato. Me lo aveva svelato Helada, tempo addietro, durante una seduta di studio nella biblioteca del terzo livello, lo aveva fatto mostrandomi un vecchio libro ingiallito. - Leggi qui! - aveva sussurrato, picchiando l'indice sullo stralcio incriminato. I grandi occhi grigioverdi avevano saettato lampi d'eccitazione. - Dice che la nostra arca-città è una linea retta.

Avevo letto un po' svogliatamente. C'era scritto: asintòte o asìntote [voce dotta dal greco asymptotos] Linea retta che anche indefinitamente prolungata, si avvicina a una data curva senza mai toccarla / Tangente in un punto improprio.

- Ecco, alla fine scopriamo che alla nostra arca qualche presuntuoso sapientone diede un nome sbagliato! Le rotte di Asìntote, così come quelle di tutte le altre arche-città, finiscono per toccarle le curve disegnate dalla costa, se non altro per permettere al popolo del mare di ormeggiare alle piattaforme dei pazziterricoli, e fare scorta di provvigioni e acqua e carburante, o racimolare i materiali per la manutenzione della città galleggiante, come pezzi di motore, tessuto di vetro, resina epossidica e lamelle di roverella - avevo commentato, con cinica soddisfazione.

- Te l'ho già detto mille volte, Khamsin! Roverella è il termine volgare. Dovresti dire lamelle di quercus pubescens - aveva precisato Helada, che non perde mai occasione per sottolineare la mia conoscenza approssimativa delle questioni di terra. - E' da quella pianta che i pazziterricoli ricavano il legno robusto, che poi i laminatori utilizzano per rinforzare gli scafi.

Avevo ribattuto che roverella mi veniva più naturale e che l'inesattezza botanica non intaccava le buone ragioni della mia lamentela, ma Helada non aveva dato troppo peso alle mie proteste, e il suo giudizio finale non era andato più in là di un frettoloso cenno d'assenso mescolato a uno sbadiglio; come di consueto, l'eccitazione che l'argomento le aveva suscitato si era spenta presto, con la stessa bizzarra superficialità con cui era sbocciata.

Mi piace la sfumatura lunatica del carattere di Helada, forse anche più del suo corpo sottile, scuro del colore dell'ebano, o dei grandi occhi antracite; così come mi piace la sua curiosa passione per gli strumenti di rilevazione sismica utilizzati dai pazziterricoli. Si, forse sono queste le cose di Helada che mi piacciono di più, ma non è il momento di stabilirlo, perché l'oceano mi propone lo scenario fumoso di un'altra manciata di memorie.

Cirrus si agita sullo scanno, e muove su e giù la testa di prugna. Lo fa prima di ogni valutazione. Sempre.

- Bene, Haze, molto bene! - gorgoglia, continuando a ondeggiare il capo. - Ma la tua mente vaga ancora in superficie, disegna cerchi oziosi sul pelo dell'acqua. E invece dovrà penetrarlo l'oceano, recare visita alla sua aggregazione liquida, scandagliarne le molecole Simbiosi, Haze! Soltanto quando le tue circonvoluzioni riusciranno a fondersi con l'essenza stessa del mare, percorrerne le correnti, individuare le spaccature del fondo, raggiungere la faglia traditrice e smascherarne i vuoti pericolosi, soltanto allora un'arca-città potrà affidarsi alle tue doti, senza timore di venire spazzata via da un maremoto non annunciato.

Un velo di delusione attraversa il volto smunto di Haze. Si tratta di un'ombra fugace, ma Helada e io la intercettiamo, e ci scambiamo un'altra occhiata complice, un'intesa che, anche questa volta, a Cirrus non sfugge.

- Bene comunque, Haze! - si affretta ad aggiungere. Il tono perentorio rivela l'intenzione di raffreddare il nostro gongolante sentimento di rivalsa. - La tua capacità di compenetrazione evidenzia innegabili progressi progressi che purtroppo non ho il piacere di constatare nelle sperimentazioni di Helada, distratta dalla sua malsana passione per l'inutile chincaglieria dei pazziterricoli, o in quelle di Khamsin, che non riesce a liberarsi dei mostri immaginari che disturbano le sue simbiosi.

Una contrazione scuote il corpo senza vita di Cirrus. Lo interpreto come un rimprovero postumo, un reiterato monito dell'Avvertitore, che invita Helada e me ad abbandonare quelle che giudicava soltanto fisime. Già, fisime! Il fatto è che io non ho mai pensato che quella di Helada possa definirsi fissazione, la chiamerei piuttosto curiosità archeologica; lei lo sa, lo sa perfettamente che gli strumenti di cui si ostina a studiare il funzionamento non presentano nessuna utilità pratica, e se i pazziterricoli ritengono di non aver bisogno, là sulla terraferma, di Avvertitori qualificati, capaci di prevedere con largo anticipo terremoti ed eruzioni, e di poter invece affidare la loro incolumità ai responsi tardivi di strumenti antiquati, quali sismografi o variometri, be' fatti loro! A dire il vero, non condivido nemmeno il pietoso disprezzo che il popolo del mare riserva a quei temerari: sono proprio i pazziterricoli, alla fin fine, che in cambio di ragionevoli quantità di pesce, sale e alghe curative, ci riforniscono di tutto il necessario. Quanto alla mia di fisima, poi, i mostri marini io li vedo davvero. Ogni volta che, nei mnemogiochi, le sequenze portano a compimento un solitario, ogni volta che la tecnica atarassica sopisce le mie emozioni, avvicinando la mente all'essenza dell'oceano. Io li vedo i mostri, e le letture segrete me ne confermano, di volta in volta, aspetto e dimensioni.

E tuttavia Cirrus reputava che le nostre rispettive manie ci avrebbero impedito di progredire nelle tecniche simbiotiche. Così io ed Helada lo abbiamo sempre saputo che non saremmo mai diventati sensitivi di valore. E forse nemmeno sensitivi mediocri.

L'oceano cresposo cattura di nuovo la mia attenzione, preparandosi a restituire un ennesimo frammento di ricordo, ma una mano strattona la mia tunica e interrompe il processo. E la mano è quella affusolata di Helada. Mi volto e incontro i grandi occhi: mi fissano in un'espressione strana, e io non capisco. Del resto, come potrei immaginare! Sbircio dalla parte di Haze: è ancora appoggiato alla parete dell'Osservatorio, paralizzato dall'attacco d'ansia, con i bulbi oculari che sembrano voler fuggire via. Penso che qualcuno dovrebbe occuparsi di lui, condurlo giù all'ospedale del secondo livello, e propinargli un decotto di alghe sedative, ma una mistura molto concentrata. Questo penso, e ancora non capisco. Poi mi accorgo degli sguardi insistenti degli Ammiragli Anziani e dei Capitani: sono tutti puntati in un'unica direzione, e sono tutti puntati su di me! L'intuizione esplode come un incubo, e l'improvvisa consapevolezza delle intenzioni rischia d'invischiare anche me nel labirinto di panico che ha già stroncato Haze.

- No, Helada! Io non posso, non sarei all'altezza! - biascico con le labbra tremolanti. I suoi occhi, però, m'inviano una tacita supplica, e io so già che non potrò esimermi.

- Devi provare, Khamsin! Per Asìntote, per tutti noi! - implora.

Qualcuno ha provveduto a trasportare via il cadavere di Cirrus, e adesso siedo sul trono dell'Avvertitore. I Governatori sono usciti dall'Osservatorio, trascinando di peso Haze, e anche Helada, dopo un fugace cenno d'incoraggiamento, ha abbandonato la postazione. Sono solo con l'oceano.

Estraggo otto Assi da due giochi di cinquantadue carte. Li dispongo, a faccia visibile e per coppie dello stesso colore, ai quattro punti cardinali di un quadrato immaginario. Gli Assi di fiori sono a nord, quelli di picche a sud, a ovest gli Assi di quadri e a est quelli di cuori. Posiziono un mazzo di quattro carte a nord-ovest, fra fiori e quadri, un secondo fra fiori e cuori, un terzo fra cuori e picche, e un quarto fra picche e quadri, a sud-ovest. I mazzi sono mucchi provvisori, e le quattro carte che li compongono, stabilite secondo la mnemopesca casuale, sono rivolte dal lato scoperto, ma solo la carta superiore è visibile. Il tavolo è costituito.

Se devo tentare, voglio farlo a modo mio. Così per concentrarmi ho scelto un solitario di difficoltà elevata, un gioco chiamato "Octopus". E questo non perché mi senta particolarmente bravo, piuttosto per una sorta di consapevole sfida ai fantasmi tentacolari che certamente disturberanno le mie percezioni. Il gioco consiste nel formare, sugli Assi, serie ascendenti dello stesso colore; quando gli otto Assi appariranno in cima ai mucchi definitivi, il solitario sarà riuscito.

Memore degli insegnamenti di Cirrus, studio con attenzione la costituzione del tavolo per qualche secondo, e poi, senza altri indugi, procedo alla mnemopesca casuale e allo sviluppo. Questa è una fase che non mi preoccupa: qualora tutte le possibilità di movimento risultassero improvvisamente precluse, mi sarebbe sufficiente costituire un nuovo tavolo e ritentarne lo sviluppo. Ma così non è in questo solitario, e combinazioni e sequenze si susseguono rapide, senza intoppi: la mia mente sistema virtualmente le figure già libere sugli Assi del colore corrispondente, e depone mucchi provvisori a sostare strategicamente sopra altri mucchi provvisori, in attesa d'individuare le carte che formeranno le colonne definitive. Cirrus sarebbe orgoglioso di me, perché per concludere il gioco utilizzo frazioni di tempo ininfluenti, e quando gli otto Assi si posano in cima ai mucchi definitivi con la leggerezza di minuscoli tappeti volanti, la mia mente è quieta, disposta a lasciarsi avvinghiare dall'abbraccio liquido: una corrente sinuosa la cattura sul pelo dell'acqua e la guida in immersione graduale. Mentre la percezione sprofonda, avvicinandosi al letto abissale, ripenso alle passate sperimentazioni, e mi domando se anche questa volta le descrizioni immemorabili, fermate nella mia immaginazione dalla lettura delle testimonianze di Plinio e di Olaus Magnus e di Denys de Monfort, risveglieranno abomini dimenticati, per inviarli a sbarrarmi il percorso.

Accade. Ma inopinatamente il mostro di turno, un Architeutis di lunghezza valutabile intorno alle centoventi braccia, non palesa atteggiamenti ostili. Il gigantesco calamaro, al contrario, nuota mansueto, fluttuando con grazia i tentacoli poderosi. E poi, allargate le propaggini a stella, smette di agitarle e si lascia cadere verso il fondo abissale, invitando la mia mente a seguirlo nella discesa.

L'Architeutis e la mia percezione raggiungono insieme la faglia. Scovano la spaccatura e s'infilano nell'imbocco della voragine, attraversano uno spessore sottile di rocce metamorfiche e poi uno strato più consistente di granito. Non si fermano: perforano un bacino magmatico infuocato e raggiungono spessi accumuli basaltici. Scommetto che nemmeno la mente di Cirrus è mai scesa così in profondità! La mia percezione comincia a disperare, ricerca con accuratezza variazioni geomagnetiche collegate ai vuoti pericolosi, agli spazi in fermento che preludono ai maremoti. Non ne trova. Forse siamo già troppo sotto No, non lo siamo. Il vuoto finalmente arriva! Sotto lo strato di basalto. Un vuoto tanto grande che la mia percezione vacilla, un vuoto spaventoso, squassato da variazioni geomagnetiche di magnitudo terrificanti. E nel vuoto, mastodontici volumi tondeggianti, levigati agglomerati violacei che si ramificano come metastasi di un male irreversibile, e che la mia mente percorre per miglia e miglia, seguendone il luccichio artificiale. Per miglia e miglia, sotto la crosta di basalto, con il calamaro che mi guida lungo spazi incalcolabili, a conoscere l'origine di tutto.

E l'orrore della consapevolezza sfalda la percezione, disgregando in uno spruzzo di molecole impazzite l'Architeutis e tutto quanto, nella visione, lo circonda; l'oceano allenta l'abbraccio, e il collegamento simbiotico s'interrompe. La mia mente retrocede come un arpione recuperato dalla fune che lo ha accompagnato nel lancio.

Quando ritrovo coscienza, i Governatori circondano lo scanno. Ai cinque di prima si sono aggiunti altri Ammiragli e altri Capitani. Non sono nello spirito giusto per mettermi a contarli, ma presumo che l'Osservatorio ospiti il Consiglio al gran completo. C'è anche Helada, un po' più discosta, e mi allunga un sorriso nervoso.

- Stiamo aspettando, Khamsin! - E' un Ammiraglio Anziano a sollecitare il responso; i contorni sbiaditi del delfino tatuato sopra la tempia testimoniano di una vecchiezza più che veneranda. - Allora, ragazzo! La tua simbiosi ha sortito i frutti sperati? L'abisso ti ha suggerito la rotta salvifica?

Le mie labbra si schiudono, e subito tornano a serrarsi. Guardo in lontananza il manto luccicante dell'oceano. Cosa posso raccontare ai Governatori di Asìntote? E a Helada? Ma, soprattutto: devo? E ammesso che raccontare sia saggio, con quali parole potrei descrivere? Ricorrendo a quali paragoni? E loro mi crederebbero? Crederebbero alla percezione di una mente che si lascia guidare dai calamari giganti? Forse dovrei guadagnare tempo, riferire notizie parziali, limitarmi a suggerire rotte effimere che assicurino all'arca-città temporanee salvezze. Si, forse è questo che dovrei fare, e tacere dei vuoti planetari che squarciano gli strati. E delle macchine che li vanno riempiendo, degli agglomerati levigati e violacei che luccicano come cristalli di salgemma. E tacere dell'origine di tutto, dei mostri. No, non dei pesci-monaco o delle balene-isola o degli Architeutis. No, non di quei mostri, ma degli altri, degli estranei abomini privi di forma compiuta che, per far posto alle macchine ciclopiche, mordono il basalto con le incommensurabili fauci. E poi lo ingoiano.

- Khamsin, stiamo ancora aspettando! - incalza il vetusto Ammiraglio. Una ruga d'inquietudine distorce i contorni sfocati del delfino.

Non è educato mettere così a dura prova la pazienza di un membro del suo rango, di un Governatore quasi centenario.

- L'oceano è stato generoso: mi ha suggerito la rotta! - annuncio. Helada mi elargisce un altro sorriso, e appare finalmente sollevata.

Spero mi sia concesso il tempo di amarla, prima che i mostri stranieri completino la costruzione degli agglomerati, prima che decidano di salire in superficie per portare a compimento i loro oscuri progetti.

Spero mi sia concesso il tempo di amarla, prima che tutto finisca.

Le dinamiche dei giochi sono estratte da

Réussites & Patiences di Pierre Berloquin

Les Nouvelles Editions Marabout, s.a.,

Verviers, 1980

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