di Aldo Selleri

racconto

Il taxi si piantò all'ingresso del cento e cinque con una frenata rabbiosa. Uno più cinque fa sei. Pericoloso. La facciata del grattacielo si perdeva troppo in alto perché ne potesse vedere la fine. Lo accecò il riflesso del sole sulle pareti di cristallo. Sarebbe stato lassù il suo nuovo posto di lavoro? Se il colloquio fosse andato bene, se soltanto... Quanti ne aveva fatti in dodici mesi? Cinque? Dieci?

Venticinque: aveva controllato la sera prima con Giusi. Gli teneva il conto dei colloqui fatti e delle lettere di rifiuto. Era lui che non andava più bene o era il mondo che non funzionava più? Il collo del tassista era nella posizione giusta: sarebbe bastato allungare le braccia.

- Dodici minuti, ha visto? - disse il tassista con voce flautata.

Lo ringraziò due volte, facendogli il verso. Piegò di lato il grande corpo massiccio per uscire e sbatté la portiera.

Giusi era preoccupata. Da quando era rimasto disoccupato non faceva che ingrassare. Due chili al mese almeno e non stava più dentro ai pantaloni.

- Sarebbe logico che tu perdessi peso, invece continui a gonfiarti.

- Logico? E' stato logico che mi abbiano licenziato secondo te?

Sì, metteva su chili: mangiare di tutto lo faceva sentire più sicuro.

Mentre sgranocchiava i suoi cioccolatini alla nocciola aveva una visione positiva della vita e il futuro gli sembrava una grande torta da mordere. E mangiando in quel modo diventava ogni giorno più forte. Le braccia gli erano ingrossate, la pancia gli era diventata più dura. Un giorno al solito bar, per richiamare il cameriere che si attardava a servirlo, aveva tirato un pugno tale sul tavolo che lo sconquassò. Tutti si voltarono a guardare, con ammirazione, gli sembrò.

Entrò, spingendo la porta di vetro con la mano aperta.

Disse il nome della società al portiere e gli chiese a quale piano dovesse andare con il tono di chi dà un ordine. Aspettò l'ascensore A della scala B per trentacinque secondi. Due guardie giurate entrarono prima di lui. Lo squadrarono. Pigiò il ventisette.Uno dei due pigiò il ventotto guardando l'altro. Arrivò al ventisettesimo piano. Salutò gli uomini in divisa che non lo salutarono. Mentre l'ascensore si chiudeva, si girò di scatto a guardarli. Ridevano. Avrebbe sputato in faccia a entrambi, ma mancavano solo sette minuti al colloquio.

Trend, ricerche motivazionali, era scritto a un lato dell'ingresso sulla luccicante targa in ottone. Per tenerla così lucida, pensò, la devono ripassare con un panno ogni mattina. E ci attaccò la sua mano sudaticcia come per assicurarsi che il nome fosse quello giusto.

- Vedremo - si disse - un'azienda vale l'altra.

Guardò l'ottone diventare opaco dove l'aveva bagnato di sudore. Si strinse il nodo della cravatta nuova. Versace. L'aveva comprata in offerta a Como, se no figurarsi le storie. Non era passato neanche un anno da quando l'avevano licenziato e Giusi si preoccupava più del conto in banca che di come stava. I soldi: quello le importava. Alcuni dirigenti della sua azienda, licenziati molto prima di lui, erano ancora disoccupati. Li incontrava che andavano a zonzo per la città, con le facce lunghe come fantasmi. Evitava di salutarli. Il vecchio che traballante chiedeva l'elemosina a un semaforo vicino a casa era una sua vecchia conoscenza di lavoro, forse il fattorino che avevano licenziato ai primi segnali di crisi. Non gli fece l'elemosina: tirava dritto con la testa alta di chi sta ancora in sella.

Il colloquio doveva andare bene. Suonò e spinse. La porta rimase chiusa. Lesse il cartellino incollato con una fitta all'occhio destro. Direzione e ricerca del personale: salire al ventottesimo piano. Quell'idiota del portinaio: cinque minuti e ci sarebbe stato il colloquio. Salì a piedi senza sentire gli scalini sotto le scarpe. Dal basso un brusio crescente: si toccò le orecchie, non era un buon segno. Sentiva le gambe pesanti, la testa vuota, gli occhi sul punto di lacrimare. Sudava come per una corsa e gli mancava il fiato. Si muoveva piano, con un'infinita pazienza per se stesso, come un astronauta smarrito in un paesaggio lunare che guarda la sfera terrestre con nostalgia. Di interviste ne aveva già fatte troppe. Dalla vetrata del pianerottolo, guardò le montagne: cime innevate contro un cielo macchiato di grigio. Niente di speciale. Le nuvole mosse dal vento fuggivano verso l'orizzonte come sarebbe fuggito volentieri lui. Pensò al leopardo che prende la rincorsa prima di piombare sulla preda. Pensò alla rete di segni incisa sulla sua mano che conteneva il suo destino. Pensò alla schiena di Giusi, costellata di nei che appartenevano solo a lui. Solo a lui?

Ore dieci meno due minuti. Direzione e ricerca del personale. La porta si aprì. Grigia in faccia come la cartella che teneva sotto braccio, la segretaria lo fissò come un nemico.

- Lorenzo Farini, per il colloquio - disse sottovoce, come se nessuno dovesse saperlo. La segretaria chinò il capo. Le guardie giurate ai lati del tavolo di ricezione lo puntarono. Le pistole nella fondina di pelle nera sembravano tatuate sul blu dei calzoni. Uno dei due disse qualcosa all'altro. La sua cravatta era troppo vistosa? La cravatta è sempre molto importante, aveva detto l'esperto di outplacement. Attira l'attenzione e valorizza quello che uno dice. Balle. Anche uno sputo in faccia rende attenti al momento giusto. Quel farabutto in doppiopetto li aveva presi per il culo. Ricordava i colleghi alla macchina del caffè, le battute sulle donne e sulle partite di calcio. Illusi. Lo sanno tutti che alla loro età, quando si viene licenziati non si trova più un impiego. Due mesi di corso a pagamento e quelle dispense sconclusionate sul modo di essere efficienti a ogni età. Ridicolo. Non è cambiato niente. Tutti con le zanne di fuori, pronti a mordere per la bistecca. Le giovani segretarie lo guardavano. Era ingrassato ma i chili in più non hanno importanza quando uno funziona. Nessuna aveva notato i suoi capelli tinti in castano chiaro con quello shampoo speciale. Affrontò la più carina nella toilette, mentre si rifaceva il trucco. Si fa così quando hanno quell'età, non ci si perde in chiacchiere. La ragazza svenne, lui uscì in fretta facendo finta di niente. Poi disse il fatto suo al direttore spingendolo contro il muro e tirandolo per la cravatta. Gli fu detto di non farsi vedere più.

- La stavamo aspettando - gli disse la segretaria come se fosse arrivato in ritardo. Con un colpo d'anca girò sui tacchi e lo guidò per un corridoio illuminato da tubi al neon che si perdevano all'infinito. Non era male. La schiena davanti a lui aveva un profilo consistente. Era diventato un esperto di corpi femminili a forza di frequentare quelle donne. In stanze maleodoranti di pensioni equivoche ne studiava i contorni come un anatomista. Le sceglieva con attenzione lungo le strade di periferia e le portava in quelle camere sgangherate per trovare mezz'ora di oblio. Dopo, esigeva che raccogliessero nude i biglietti da cinquantamila che gettava a terra. Certo, andare a puttane era un gioco divertente, ma i soldi della liquidazione sarebbero finiti prima o poi. Se Giusi avesse saputo come spendeva i loro soldi...

I loro soldi erano quelli che aveva guadagnato lui. Non i loro soldi. Giusi era così: controllo e dedizione. Merda, non la sopportava più. Prima di lasciarlo nella sala dei colloqui, la segretaria lo guardò. Lui si passò la lingua all'angolo della bocca e le strizzò l'occhio. Lei non si scompose: tirò in giù la gonna elastica e gli chiuse la porta in faccia.

Troppo vetro. Troppo sole. Si sentì spiato e indifeso.

I riflessi lo bucavano da una parte all'altra senza misericordia. Voltò la schiena al panorama della città che si estendeva dalle vetrate in una mappa di strade e di quartieri. Leggerla sarebbe stato inutile. Il colloquio, se mai doveva accadere...sarebbe accaduto comunque.

Sarebbe stato il ventiseiesimo. Due e sei. Fanno otto. Otto diviso due fa quattro. Non porta fortuna. Merda. Ancora una volta. Rimase in piedi a fissare il tavolo, come un condannato in attesa dell'esecuzione. Abbassò lo sguardo sul mogano lucidato a specchio: una striscia umida lo percorreva come uno sfregio. La seguì. Girò il collo e non poté evitare la vista della città. I campanili del centro storico svettavano sopra i tetti rossi. Dalla parte opposta le ciminiere della zona industriale sputavano pennacchi di fumo a ritmo cadenzato. Un ponte divideva la città in due. Una freccia d'acciaio al centro di una rotonda verde, si alzava nel grigio. - Un'anima divisa - pensò. Sentì la freccia entrargli nella carne. Ritornò con lo sguardo al tavolo. Quel filo di bava era il confine fra la sua assunzione e un nuovo rifiuto. Si toccò la guancia sinistra. Il ronzio alle orecchie ritornò a pompare.

La immaginò in sottoveste nera come l'aveva lasciata. Il seno fermo, le gambe bianche scoperte fino al ginocchio. Una cosa era Giusi e un'altra cosa era il corpo di Giusi. Aveva perso Giusi in un luogo che aveva smesso di cercare ma aveva conservato il suo corpo rotondo e generoso. Lo spiava, lo sorvegliava eccitandosi. Possederlo in silenzio era un male tollerabile con la complicità dell'altra Giusi che da lontano, da quel suo luogo sconosciuto, dava il consenso alla loro relazione senza anima né cuore. A quell'ora il corpo di Giusi doveva essere ancora in cucina. La vedeva passare da una sedia all'altra. Fumare. Rovistare nei cassetti. All'attaccatura dei capelli e sotto le ascelle, gocce di sudore la imperlavano. Le leccò: una a una. E le contò mentre le assaporava. Amare e nutrienti, multicolori come frutti esotici, benefiche come una medicina. Era il momento di penetrarla e penetrandola avrebbe fermato la sua testa che ticchettava e pensava sempre ai soldi. Penetrandola, l'avrebbe fatta morire questa volta. E anche lui sarebbe morto dentro di lei, facendola finita una volta per tutte.

Non era in cucina. Era a letto con quello. Era lui che leccava il sudore a Giusi e dovunque gli piacesse. Ora che lo sapeva, tutto era più facile, anche la conta dei nei sulla sua schiena. Non l'avrebbe più fatta da solo. E in due a contare, c'erano più probabilità di non sbagliare il totale. Il bilancio in un'azienda doveva quadrare come la conta dei nei sulla schiena di Giusi. Non avrebbe saputo dire quale fosse più importante. No, non poteva essere. Giusi, ritta in piedi a gambe larghe e con le mani ai fianchi, stava semplicemente guardando l'orologio appeso sopra il frigorifero. Soffiava via dalla fronte i capelli, pensando al suo colloquio. Si strinse forte il nodo della cravatta.

Doveva fare buona impressione. Essere self confident. Padrone di se stesso. Dare le risposte giuste. Non doveva sbagliarne una. Doveva... Dieci minuti che aspettava. Si guardò alle spalle. La porta era chiusa. Guardò la superficie del tavolo. Sullo specchio sanguigno del mogano lucido spuntò il profilo di una minuscola gobba che avanzava. Lo zoccolio di un cavallo al galoppo lo assordò. Fece un passo indietro. Portò le mani al capo, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, lo scarafaggio non c'era più.

- Devi farti vedere - gli aveva detto Giusi, quando lui le parlò del suo amante come di uno che conoscevano bene. Glielo aveva descritto in tutti i particolari, esattamente come l'aveva visto quella sera a braccetto con lei. Il riflesso di Giusi insieme a quell'uomo sulla vetrina del supermercato, mentre passavano, si era impresso fra una scarpa e una borsetta. Come stavano bene in quella cornice di pelli odorose. Alto e snello lui, elegante lei in tacchi alti e cappotto nero. Giusi non negò, si limitò a guiardarlo con la sua solita espressione ansiosa.

- Va' da un medico - gli disse - prima che sia troppo tardi - e si sfilò le nailon nere.

L'uomo delle assunzioni era molto più giovane di quanto si aspettasse. Troppo giovane. E gli strinse la mano con troppa energia.

- Piacere, Arrighi. -

Fece fatica a non stritolargliela perché capisse da subito come stavano le cose. Si trattenne mordendosi il labbro inferiore. Succhiò qualche goccia di sangue mentre l'altro riempiva la prima riga del questionario. Occhi neri acquosi, mento rientrante, naso da uccello rapace. Impettito nel suo abito grigio ferro, Arrighi si arroccò sulla poltrona a capotavola, appoggiandosi con la schiena all'indietro e lo squadrò dall'alto in basso.

- Farini, per quel posto... - disse lui.

- Sì, certo, abbiamo letto il suo curriculum. Ci dica tutto - disse Arrighi.

Lui si grattò la punta del naso. Non sopportava il plurale maiestatico: quel giovanotto non aveva capito la situazione. Si schiarì la gola e disse: - Beh, prima mi dica tutto... lei...

Giusi non sarebbe stata contenta della sua risposta. Si era raccomandata tanto di fare attenzione ma forse Giusi in quel momento... Si toccò il collo alla vertebra cervicale. Sotto le dita avvertì una presenza viva. Si controllò, lo sollevò e lo tenne sospeso in alto. Allungò un braccio e l'abbassò sotto il tavolo mentre Arrighi si infervorava in una descrizione sospetta della società di ricerche motivazionali. Lo scarafaggio si dibatteva. Lo tenne fermo con la punta della scarpa. Attese che l'altro finisse di parlare. Poi schiacciò.

Arrighi balzò di scatto in piedi rovesciando la sedia all'indietro.

Diventò scuro in faccia e la pelle si trasformò da nera a viola mentre lo investiva con una cascata di bestemmie sconnesse. Mai bestemmiare con lui, lo rendeva nervoso. Il volto di Arrighi, come percorso da una scarica elettrica, si coprì di escrescenze rosse. Gli occhi strabuzzarono pupille fosforescenti. Due antenne gli spuntarono dal cranio calvo e vibrarono come scudisci contro di lui. Si stropicciò le mani: non poteva che difendersi. Lo afferrò per il collo con le mani tozze e capaci.

Gli faceva schifo come apriva e chiudeva la bocca, come sibilava dal dolore.

- Iiutooo...to...to...

Che non si permettesse di alzare troppo la voce con lui. Gli strozzò il lamento in gola e con le mani a morsa continuò a stringere più che poté. Aculei lo graffiarono e sanguinò per un pungiglione che gli trapassò un braccio. Non sentì dolore e continuò a stringere. Un vomito colloso, giallo e verde, gli impiastricciò gli abiti: l'acido bruciava sulla pelle e l'odore di fiori marci era soffocante. Non importava. Strinse finché l'altro non smise di dibattersi e continuò a stringere anche quando sentì quel corpo spegnersi senza vita. Un ultimo fremito si trasmise e un sibilo uscì dal suo occhio mediano. Fu tutto.

Lo distese sul tavolo con cura, allungandogli le grandi chele da insetto, accostando le zampe al corpo nerastro e componendo le ali spezzate sopra il gonfiore del ventre. Una musica d'harmonium salì fino alle gemme del lampadario: ammirò commosso quei luccichii come un messaggio dall'alto. Giustizia era fatta. Quello scarafaggio che aveva sporcato il tavolo con la sua bava velenosa aveva finito di nuocere. L'avrebbero assunto per la sicurezza che aveva dimostrato e per la prontezza del suo intervento. Era giusto che l'assumessero e l'avrebbero assunto. Tirò un sospiro, spalancò la grande finestra.

Guardò dove il grattacielo si congiungeva alle nuvole. Sentì il telefono squillare. Non rispose. Doveva arrivare alla fine di quella strada di cristallo che aveva intravisto e incominciò ad avviarsi. Quandò mise un piede fuori dalla finestra sentì che lo chiamavano dal basso. Non diede retta, doveva tirare dritto lui. Giusi sarebbe stata contenta quella sera.

Attese che l'altro finisse di parlare. Alzò la punta della scarpa. Lo scarafaggio scappò via lasciandosi dietro una puzza di muschio bagnato. Lo vide addossato alla parete mimetizzarsi nel grigio della moquette. Era là che lo guardava con due punte di spillo, in attesa. Come si permetteva? Avrebbe fatto meglio a schiacciarlo subito. Arrighi, appoggiandosi allo schienale, inclinò la sedia all'indietro e si dondolò. Era il suo turno. Dopo una pausa di silenzio, dedicata al corpo di Giusi, lui incominciò. Parlò come non aveva mai fatto prima in un colloquio di lavoro, anzi, in venticinque colloqui di lavoro. Disse tutto quanto l'esperto di outplacement gli aveva insegnato nell'ordine giusto, virgole comprese. Rispettò le pause senza incepparsi. Indugiò su alcune parole, si affrettò su altre. Non parlò della sua età ma della sua esperienza. Nominò le tappe della sua carriera una a una, con lo sguardo fermo sull' interlocutore. Sorrise quanto bastava, diventò serio quando occorreva. Seppe arrabbiarsi nel definire la concorrenza e chiarì le sue aree d'intervento da quelle di supervisione.

Raccontò una barzelletta per sdrammatizzare, concluse con una citazione. Arrighi lo fissava in mezzo agli occhi. Quel bastardo in doppio petto grigio gli sorrideva con una smorfia larga quanto l'intera bocca mentre gli rovistava passato e presente. Si lasciò ispezionare il cervello promettendosi di fargliela pagare cara. Poi successe quello che successe: il naso adunco di Arrighi si raddrizzò, il mento sfuggente gli si trasformò in quello di una statua greca, gli occhi gli si accesero, azzurri e luminosi come due stelle d'oriente. Era bello e un leggero profumo di cuoio gli stuzzicò la memoria. Non poteva sbagliarsi. Lo aveva riconosciuto. Era l'uomo del supermercato.

- Si consideri assunto - gli disse Arrighi. E gli tese la mano. Lui gliela strinse quel tanto che bastò, fingendosi tranquillo. Non doveva tradirsi fintanto che non avesse deciso che punizione impartirgli. Arrighi gli stava già descrivendo l' incarico. Finse di stare attento e cominciò a strofinarsi le mani. Il bidonista del outplacement diceva che in un colloquio di lavoro bisogna saper ascoltare. Balle. Si sciolse il nodo della cravatta con un gesto deciso. Il punto mimetizzato nella moquette dava segni di fibrillazione e percepì più intensa la puzza di muschio bagnato. Era il momento, nessuno doveva sapere. Non appena Arrighi avesse concluso avrebbe fatto il resto. Giusi non sarebbe stata contenta quella sera.

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